Nuova destra

Tra gli effetti collaterali del referendum sulla Brexit, c'è la riemersione di un'idea teologica del voto democratico e dell'abitudine ignorante e fanatica di interpretarne gli esiti secondo la logica 'vox populi, vox dei'. Ma nel voto democratico non parla il Popolo, che non esiste, né Dio, che se esiste comunque non vota, ma milioni di singoli elettori accomunati o divisi da interessi, persuasioni e pregiudizi, che non sono più 'giusti' o più 'veri' per il fatto di essere maggioritari.

Nella logica costituzionale liberale, inoltre, il voto popolare previene il potere assoluto, non lo sostituisce. Legittima l'esercizio della rappresentanza e del governo e consente di licenziare i sovrani senza ricorrere alla violenza. In questo caso ha licenziato Cameron e sancito le dimissioni britanniche dal consesso politico europeo. Il responso delle urne, però, non è affatto l'oracolo che scioglie l'enigma della storia e ne indica la direzione provvidenziale, bensì un dispositivo di garanzia contro il sopruso, una misura del consenso di candidati, partiti e, nel caso dei referendum, di specifiche proposte politiche, anche di rango - come nel caso della Brexit - costituzionale.

Bisogna perciò evitare di chiamare democrazia la slatentizzazione plebiscitaria del panico e dell'invidia sociale e la chiamata a raccolta del popolo per un pronunciamento tanto smisurato o indeterminato nel suo oggetto, quanto fondativo nel suo significato. A meno di non ritenere che la forma più compiuta di democrazia sia l'ordalia, un rito magico-religioso che insieme punisce il colpevole e libera il popolo dal suo maleficio.

Occorrerebbe, invece, sempre rammentare le ragioni storiche e tecniche per cui la democrazia rappresentativa - in un quadro di regole costituzionali che limitano in modo consistente i diritti della maggioranza - si è affermata come un modello più efficiente nella difesa della libertà e della convivenza pacifica, mentre tutti i plebiscitarismi, a maggior ragione se legati a riflessi revanscisti, si sono rivelati per lo più una grave minaccia, quando non l'incubatore di mortali malattie totalitarie.

Non è ovviamente casuale che nella politica contemporanea, in cui i processi di integrazione (non solo economica) allontanano i centri della decisione politica dal controllo diretto dell'elettore, le istanze sovraniste e referendarie si leghino a quelle nazionaliste, come se per riappropriarsi della sovranità "usurpata" occorresse esercitarla in modo immediato e ristabilirne il confine naturale, quello dello Stato.

Questa dinamica, che fa comunque emergere pressoché ovunque un trade off tra democrazia e integrazione, è particolarmente esplosiva in Europa non perché le istituzioni europee siano burocratiche e inefficienti, ma perché hanno la pretesa di rappresentare una forma di unione politica super-nazionale. A lamentare il deficit democratico dell'Ue sono i federalisti, per i quali non può darsi una vera politica comune senza una sovranità comune.

I nazionalisti invece accusano Bruxelles esattamente del contrario, cioè di avere trasformato l'Ue in un superstato artificiale, che i processi (a dire il vero intermittenti) di integrazione politica e istituzionale rendono minaccioso per la libertà e la prosperità delle nazioni. A questa accusa, un po' più della metà dei britannici ha dimostrato di (volere) credere. Ma non ne ha dimostrato la "verità".

Ora si apre la questione di come reagire alla vittoria del Leave. La tesi "Out is out", il rifiuto di trattamenti di favore e di nuove negoziazioni, espressa prima del voto e ieri ribadita con durezza da Juncker, avrebbe bisogno, come minimo, del sostegno esplicito dei tre grandi paesi fondatori - Germania, Francia e Italia - che ieri non è arrivato e chissà se e come arriverà.

Ma si apre una questione più generale in tutti gli stati, proprio a partire da Italia e Francia, che hanno forti maggioranze anti-europeiste e in cui l'emulazione dell'esempio inglese potrebbe portare a una richiesta pressante di referendum anti-Ue o, più probabilmente, anti-euro. Concedere qualcosa non solo sul referendum, ma anche solo sulle ragioni "democratiche" di un siffatto referendum, sarebbe un errore politicamente più fatale di quello commesso da Cameron.

Un ricorso inconsulto o un omaggio, fosse pure meramente ideologico, a referendum pilateschi è un incentivo all'estremizzazione del voto e alla disarticolazione del consenso politico. Porta all'autodafè nichilista, non all'autogoverno del popolo. Questa è la lezione del voto inglese.

@carmelopalma