La crisi si porta appresso (anche) buone notizie: si è dissolto finalmente l'incanto delle risorse pubbliche infinite. E a risentirne positivamente potrebbero essere la trasparenza e l’efficienza amministrativa e legislativa alla base della nostra convivenza democratica.

«Le nostre risorse sono limitate, dovremo compiere delle scelte». In questo refrain, ripetuto da politici e personaggi pubblici italiani di ogni colore e tendenza nelle settimane che hanno preceduto la stesura della mini-manovra per correggere il rapporto deficit/pil, e soprattutto della Legge di stabilità, sono contenute una buona notizia e una cattiva notizia. La buona notizia è rappresentata dalla ritrovata ed esplicita consapevolezza di un dato di realtà lungamente taciuto: le risorse fiscali pubbliche non sono infinite bensì limitate. Una consapevolezza, e questa è la vera notizia, che un numero crescente di politici e rappresentanti delle parti sociali accetta oramai di rivendicare – seppure obtorto collo - perfino nel dibattito pubblico, di fronte a potenziali elettori o associati. La cattiva notizia è che le scelte obbligate che discendono da questa presa d’atto non sono state finora sempre le più ottimali, anzi.

Visto e considerato che le tasche dello Stato italiano non sono senza fondo, infatti, è corretto porsi domande del tipo di quelle che abbiamo sentito fare in questi mesi? È meglio abolire del tutto l’Imu sulla prima casa lasciando aumentare l’Iva? Oppure ridurre l’Iva facendo pagare a qualcuno l’Imu? O ancora, tagliare a sufficienza altre uscite meno necessarie per ridurre sia l’Imu che l’Iva? L’atteggiamento del governo Letta, così come quello degli esecutivi che l’hanno preceduto, non può tuttavia entusiasmare nessuno. Non foss’altro perché, invece di rispondere alle domande di cui sopra, i governi del nostro Paese hanno spesso preferito “andare fuori tema”: alzare le tasse senza rassegnarsi all’assunto da cui pure erano partiti, quello sulla limitatezza delle risorse pubbliche.

Intendiamoci, l’inasprimento della pressione fiscale non è un fenomeno che “l’italiano dimenticato” - per parafrasare “l’uomo dimenticato” del filosofo statunitense William Graham Sumner, cioè “l’uomo a cui non si pensa mai; lavora, vota, di solito prega, ma sempre paga” - abbia conosciuto solo di recente. Luca Ricolfi, nel libro La Repubblica delle tasse (Rizzoli, 2011), scriveva tra l’altro: «Nell’ultimo periodo di crescita delle economie avanzate (1995-2007), l’Italia è stato l’unico Paese in cui sia la pressione fiscale complessiva sia quella sulle imprese si sono mantenute entrambe sopra il 40%. Ed è innanzitutto per questo che l’Italia è stata la maglia nera della crescita: in nessun Paese avanzato salvo il Giappone il Pil pro capite è aumentato a un tasso lento come in Italia (1,3% all’anno)». Ora, però, il combinato disposto di credito bancario anemico, produzione di ricchezza in caduta e aliquote fiscali al rialzo rende la situazione ancora più insostenibile: la pressione fiscale è arrivata, secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, al 44,5% del Pil, mentre quella effettiva (che esclude il sommerso) oltrepassa addirittura il 53%. Una tendenza che rende irraggiungibili gli stessi risultati cui la politica dice di voler puntare nel breve termine: rilancio della crescita e riduzione rapida di disavanzo e debito pubblici. È questa situazione, sempre più paradossale e drammatica, che ha contribuito alla presa d’atto di cui ci possiamo felicitare, quella sulla “finitezza” delle risorse pubbliche. Se infatti già dall’inizio degli anni 2000 il tema del “declino economico” italiano era tornato a essere materia d’approfondimento per saggi scientifici e articoli di giornale, tanta parte della classe dirigente del nostro Paese non aveva avuto ancora interesse ad avviare un ragionamento serio e soprattutto pragmatico sui nodi della spesa pubblica e dell’interventismo statale.

È sintomatica, a questo proposito, la sorte riservata alla nostra Costituzione, quella che secondo qualcuno è sempre e comunque “la più bella del mondo” e quindi intoccabile, nel momento in cui la stessa Carta si trovò a fare da argine alla “pressione cumulativa” della spesa pubblica italiana, e quindi alla discrezionalità dei potenti di turno. La formula “pressione cumulativa” la prendo in prestito da un lucido saggio storico-giuridico pubblicato sulla rivista “Amministrazione in cammino” da Giuseppe Di Gaspare, professore di Diritto dell’economia alla Luiss, sulle vicissitudini dell’articolo 81 della Costituzione. Quello stesso articolo 81 che prescriveva in origine il pareggio di bilancio annuale e che Luigi Einaudi definì «il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate». Nel 1966, per mano della Corte Costituzionale, tale principio saltò; i giudici ammisero «la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, all’indebitamento». Scavata una fessura in quel baluardo, in poco tempo si aprì una vera e propria breccia per via delle ricadute domestiche della crisi economica internazionale (fine di Bretton Woods e choc petroliferi) e della “pressione cumulativa” della spesa. Spesa alimentata sia dalla trasformazione della finanza locale e regionale in “finanza di trasferimento” dal centro, sia dalle modifiche dei regolamenti parlamentari del 1971 che resero meno evidenti per l’opinione pubblica i passaggi legislativi legati alle decisioni di spesa. Emissione e collocamento dei titoli del debito pubblico divennero la conseguenza naturale di bilanci sempre più generosi, la breccia si trasformò in voragine, e così nel periodo 1970-75 il debito pubblico italiano aumentò di oltre il 200 per cento, senza contare l’inflazione perennemente a doppia cifra frutto dell’emissione monetaria con cui la Banca d’Italia era costretta a sostenere parte di quell’indebitamento. Perfino dopo il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, si optò per un maggiore indebitamento sui mercati piuttosto che per un inasprimento dell’imposizione fiscale (operazione che avrebbe avuto quantomeno il merito della chiarezza di fronte agli elettori) o una razionalizzazione delle uscite (operazione economicamente lungimirante). Le generazioni future avrebbero pagato il conto, si cominciò a dire. Oggi ci siamo.

Nella fase storica attuale, spostare l’attenzione sulla spesa pubblica italiana, non significa necessariamente sposare letture semplicistiche della crisi dell’euro. Quest’ultima è dovuta certamente a una gestione sempre meno sostenibile delle finanze pubbliche, ma anche ai divari di competitività tra i Paesi della moneta unica e in generale a difetti profondi nell’architettura istituzionale europea che rischiano di rendere impraticabile (politicamente, prim’ancora che economicamente) il tentato risanamento della nostra economia (come ha spiegato tra gli altri, in Italia, Mario Seminerio nel suo La cura letale, Bur, 2012). Eppure non bisogna farsi sfuggire l’occasione rappresentata da questa crisi,  se almeno essa potrà essere utile a ristabilire un assioma piuttosto elementare nel dibattito di politica economica: l’intervento pubblico nell’economia ha un costo, tale costo per essere sostenibile deve avere un limite.
 
In conclusione, in quel ritornello ripetuto stancamente nei nostri talk show da un paio d’anni (“Le risorse pubbliche sono limitate, dovremo compiere delle scelte”), c’è l’ammissione implicita di una classe dirigente che non riesce più a stregare i cittadini con la promessa di disponibilità finanziarie illimitate. Finalmente è dunque svelata l’“illusione finanziaria” praticata dallo Stato, come la battezzò a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo uno dei padri della scienza delle finanze, l’italiano Amilcare Puviani. Gli Stati, sosteneva Puviani anticipando alcune delle tesi più originali della Public choice statunitense, ricorrono a mille e svariati espedienti per alimentare la spesa pubblica, arricchire la burocrazia che la gestisce e gli interessi a essa connessi, aggirando il cittadino che deve pagare le tasse: tra questi espedienti, diceva l’economista, ci sono per esempio l’opacità e la complessità dei sistemi di pagamento delle imposte, come anche la preferenza per l’indebitamento invece che per l’imposizione di nuove tasse. Il fatto che la crisi fiscale italiana si stia incaricando di svelare l’inganno perpetrato ai danni dei contribuenti (di oggi e di domani), non è necessariamente un male, anzi. A guadagnarne potrebbero essere la trasparenza e l’efficienza amministrativa e legislativa alla base della nostra convivenza democratica. Per decenni, e ancora oggi sui libri di testo economici più diffusi nelle università, ci è stato spiegato che il costo di certe politiche di indebitamento e di alcune mancate riforme sarebe stato saldato dalle “generazioni future”. Cattiva notizia: le “generazioni future” siamo noi. Buona notizia: siamo in grado di prenderne atto, e regolarci di conseguenza.

Twitter @marcovaleriolp