falascaemiliano

Alla vigilia della campagna referendaria, la prima esigenza è stata capire. Di che parla ‘sto referendum No Triv?

C’è voluto poco a scoprire che di Triv neanche l’ombra, mentre di No una marea. No al petrolio - innanzitutto - sebbene di petrolio ce ne sia praticamente nulla nelle piattaforme marine oggetto del quesito referendario, e ci sia semmai gas, cioè la fonte energetica che fino ad una stagione referendaria fa (quella contro il nucleare, per dire) si considerava il combustibile fossile pulito.

Il No della locuzione No Triv diventa allora un generico diniego all’industria energetica, anzi all’industria tout court, perché, come noto, produrre inquina. Produrre rifiuti e scaricarli in mare senza depuratore inquina. Produrre petrolio in Arabia Saudita e poi trasportarlo per mare in petroliere ad alto potenziale di rischio inquina. Inquina anche il motoscafo che rallegra l’estate del vacanziere accolto nelle nostre innumerevoli località turistiche costiere — ooops, anche il turismo inquina. Inquinano persino le piattaforme italiane non sottoposte al quesito referendario, cioè quelle una manciata di metri oltre le 12 miglia. Ed inquinano le piattaforme marine dei nostri vicini di mare - ché il mare, beato lui, non ha confini.

Il quesito referendario si risolve in una questione talmente poco dirimente per le sorti del paese, per quelle dell’ambiente, per quelle delle lobby - cioè l’azienda para-pubblica Eni - da rendere oggettivamente incomprensibile l’appassionato accanimento dei promotori del sì - se non, certo, per il gusto non marginale di dare una lezione a quel cafone di Renzi. Il quesito referendario chiede solo se si vuole abrogare la norma che autorizza le attuali piattaforme entro le 12 miglia a continuare ad estrarre gas (e marginalmente petrolio) sino ad esaurimento dei pozzi. Punto.

Analizzata la questione, le ripercussioni, gli interessi pubblici e privati in gioco; analizzate soprattutto le ragioni del sì, mi formulo la convinzione di votare No. Scelgo cioè, in piena consapevolezza, di avallare questa ventina circa di concessioni al largo delle nostre coste fino ad esaurimento, tenuto conto che le estrazioni non si fanno in regime di anarchia, sono già sottoposte a norme prescrittive, a vincoli sull’impatto ambientale, a controlli costanti e capillari. E tenuto conto che nessun nuovo pozzo potrà più essere autorizzato al di qua delle 12 miglia, per delibera dello stesso governo che ha concesso alle piattaforme esistenti di continuare ad estrarre gas (e marginalmente petrolio) per quel poco di tempo che ancora resta loro ad esaurire i pozzi.

Nessuna questione di vita o di morte; nessuna questione di strategia energetica; nessuna questione di prospettiva economica: banale buonsenso, lo definirei.

Un no consapevole, dunque. E la scelta più ovvia per assolvere al “dovere civico” (sic!) di partecipare alla vita democratica del paese è esprimere quel No consapevole votando al referendum del 17 aprile. Ma qui sorge il dilaniante dilemma: andare a votare No e di fatto far vincere il Sì, o astenersi e provare a far vincere il No?

I referendum andrebbero promossi in modo che si possa sempre tutti votare, e votare in maniera consapevole. Dovrebbero quindi esservi delle regole prescrittive che garantiscano la corretta, tempestiva, capillare, adeguata informazione degli elettori. Dovrebbe ad esempio essere proibito propagandare informazioni false, o inquinare l’opinione pubblica evocando le "trivelle" in un referendum che non si occupa di trivelle ma di piattaforme; dovrebbe essere proibito evocare le energie alternative in un referendum che si occupa solo di gas.

Dovrebbe esistere, cioè, un processo referendario certificato nelle modalità di campagna, e garantito nella responsabilità delle parti che ne sostengono le opposte ragioni. Ma tutto questo nel referendum No Triv non c’è. Non c’è anche per scelta espressa del Governo, che ha usato il proprio potere di convocazione della data referendaria in tempi così stretti da favorire nei fatti l’astensione. Come denunciato dai Radicali (che in merito hanno presentato anche ricorso al Tar), nei tempi dati è pressoché impossibile svolgere una adeguata campagna di informazione. 

Il problema di questo referendum è all'origine, così come all’origine stava il problema nel referendum sull'acqua "pubblica": il quesito pone un interrogativo diverso da quello con cui viene propagandato. Non sono trivelle in questo caso, come non lo era l’acqua pubblica in quell’altro. Non è, oggi, la salute ambientale né la strategia energetica nazionale ad essere sottoposta a quesito, come non lo era ieri la proprietà della risorsa pubblica acqua.

Questo slittamento tra realtà e propaganda è un problema di sostanza democratica, non (solo) di comunicazione: è di sostanza perché altera in nuce la possibilità di deliberare in maniera consapevole, facoltà che si può esercitare esclusivamente sulla base di una conoscenza informata, intanto dell'oggetto del quesito, ergo delle ragioni del sì e di quelle del no.

In questo caso, per ammissione degli stessi proponenti, l'obiettivo del sì non è legato al quesito in sé ma al valore politico della sua eventuale affermazione, e all'illusione - falsa - che la sconfitta della posizione governativa apra la strada a fantomatiche prospettive ambientaliste che escludano di qui in poi il ricorso alle fonti fossili per l’approvvigionamento energetico nazionale.

La campagna referendaria per il sì è giocata sul piano eminentemente politico del dagli al Renzi. Legittimo, in democrazia. Ma non pertinente col quesito referendario. Nel merito, il mio No non ha chance di affermarsi semplicemente perché le forze politiche che dovrebbero favorire la deliberazione attraverso la conoscenza da parte degli elettori sono pressoché tutte arroccate sull’obiettivo politico di colpire l’avversario governante. Sono cioè inconsapevoli alleate di Renzi nella strategia della non-informazione!

Chi ha sensibilità referendaria è interessato al merito della questione. Le previsioni sulla partecipazione al referendum, ad oggi, portano a ritenere che la strategia vincente per far vincere il No sia l’astensione, non il voto - per quanto culturalmente doloroso questo possa risultare.

Il quesito nasce già inquinato. Illudersi di poterlo bonificare in un mesetto scarso è, appunto, pia illusione. Per affermare le ragioni del No, l'opzione più praticabile è il non raggiungimento del quorum, ovvero l’astensione come legittima forma di partecipazione democratica - e non appaia un ossimoro. L’astensione da un referendum truffaldino (e con quorum) è un atto politico deliberativo in tutto equivalente ad un voto, per le ragioni che ho cercato di riassumere qui su.

@kuliscioff