donald trump

Capita, talvolta, che il voto del Super Martedì chiuda i giochi e consegni la candidatura ad uno dei contendenti. Non è capitato stanotte.

Il conteggio dei delegati da assegnare è ancora in corso, perché si tratta di una spartizione che avviene in parte con metodo proporzionale, in parte con un maggioritario applicato non allo Stato nel suo complesso bensì ai singoli collegi elettorali (in quasi tutti gli Stati del Sud vige il cosiddetto “Winner takes most”, cioè si applica il maggioritario secco solo se qualcuno supera il 50%, cosa che stanotte non è successa, altrimenti in ogni collegio si assegnano due delegati al più votato ed uno al secondo). Ma la situazione è in linea di massima ormai delineata.

Trump ha “vinto”, ma senza grande slancio, riportando risultati al di sotto delle aspettative create dai sondaggi e dalla sua sovraesposizione mediatica.
La vera sorpresa sta nel risultato deludente di Marco Rubio ed in quello inaspettatamente consistente di Ted Cruz.

Rubio ha vinto troppo poco sia sul piano psicologico, ottenendo la maggioranza solo ai caucus del Minnesota – ha sfiorato, a sorpresa, la vittoria in Virginia: l’aver mancato di poco il primo posto gli costerà l'assegnazione di un solo delegato meno di Trump, ma è il non poter rivendicare quella che sarebbe stata una vittoria simbolicamente eclatante che lo frena – sia sul "pallottoliere" dell'assegnazione dei delegati, non essendo riuscito a superare la soglia di sbarramento del 20% né in Texas, né in Alabama né in Tennessee, dove rimane perciò a becco asciutto.

La mappatura dei voti parla chiaro: i suoi sono tutti concentrati nelle zone urbane, e infatti si è battuto molto bene in Virginia, dove gli elettori dell’area metropolitana circostante Washington DC hanno votato in massa per lui, e in Georgia, dove ha preso buona parte dei voti dell’area metropolitana di Atlanta; ma i conservatori delle zone rurali e di provincia non lo votano, come quattro anni fa non votavano Mitt Romney - con la differenza che stavolta chi vuole esprimere un voto più arrabbiato ha a disposizione il “fenomeno” Trump. La sua ultima speranza sarebbe quella di vincere fra una settimana nel suo Stato, la Florida, che da solo assegna con il “winner takes all” un pacchetto di 99 delegati; ma gli ultimi sondaggi non gli lasciano speranze nemmeno lì (mediamente lo danno al 20% mentre Trump viene dato al 40). Trump sa bene che la partita si potrebbe chiudere in Florida: non a caso ieri sera ha tenuto proprio la sua conferenza stampa post-voto nel suo faraonico Mar-A-Lago Club di Palm Beach.

Ted Cruz, che molti davano ormai per morto, ha vinto non solo nel “suo” Texas, come ampiamente pronosticato, ma anche nel limitrofo Oklahoma, cosa che invece nessuno aveva previsto (l’autorevole sito FiveThirtyEight gli dava l’11% di chance). Contro ogni pronostico è ora lui, e non Rubio, ad inseguire Trump nella assegnazione dei delegati alla Convention Nazionale. Potrebbe addirittura diffondersi la sensazione che sia su di lui, e non su Rubio come pareva ormai scontato, che il fronte anti Trump dovrebbe concentrare le proprie risorse? Decisamente improbabile, anche perché le prossime votazioni si terranno fuori da quel Profondo Sud dove Cruz ha dimostrato di poter portare a casa qualche risultato.

Trump ha vinto in 7 Stati su 11, ma l’unica sua vittoria di ampia misura è stata quella in Massachusetts. Le altre sono di pochi punti e in nessun caso ha riportato una maggioranza assoluta dei voti. Stenta a raggiungere il 40%. Così come pare destinato a non accaparrarsi la maggioranza assoluta dei 595 delegati che si assegneranno in base al voto di ieri. Attualmente, mentre mancano ancora i risultati dei caucus dell’Alaska, si stima che si sia assicurato 285 delegati - e che Cruz ne avrà 160.

Se si considera che per aggiudicarsi la candidatura ne occorrono 1237, è chiaro che in una sfida uno-contro-uno Trump potrebbe ancora essere battuto. Se la sua vittoria alle primarie appare ormai estremamente probabile è solo perché lo scenario di un duello non riesce in nessun modo ad innescarsi. Ciascuno dei suoi antagonisti ha qualche buona ragione per non ritirarsi, e questa frammentazione fa il suo gioco.

Quanto ad Hillary Clinton: la sua vittoria è, come previsto, più nitida, anche perché Bernie Sanders, che vorrebbe sfidarla da sinistra, ha confermato la propria incapacità di attrarre il voto delle minoranze etniche e non è riuscito a sorpassarla nemmeno in uno Stato di sinistra ma “wasp” come il Massachusetts: a causa di ciò, la sua candidatura perde molta credibilità. Tuttavia è pur vero che le vittorie di Hillary sono per ora quasi tutte concentrate in quel Sud che poi, nell’elezione generale, è scontato che voterà repubblicano.

Soprattutto, però, sono i dati sull’affluenza ad indicare che Hillary ha parecchio piombo nelle ali: le considerazioni svolte all’indomani delle primarie Dem in South Carolina hanno trovato stanotte una dura conferma. Il numero dei votanti alle primarie democratiche è troppo basso, è in calo ovunque senza eccezioni, e questo mentre alle primarie repubblicane si registra al contrario un impressionante incremento (in Virginia, dove 4 anni fa i votanti Rep erano stati 265,570, ieri se ne sono registrati più di 1000).

A questo punto, se davvero come pare la candidatura repubblicana sta scivolando nelle mani di Trump, Hillary dovrà puntare tutto su una ipotetica ondata di rigetto nei confronti di quest’ultimo, soprattutto da parte dei cosiddetti elettori indipendenti. Ma si tratta di un anno elettorale molto, molto strano. Ci sono troppe cose che non si possono dare per scontate.