kolesnikov

“Se non mi sentirai più per i prossimi 2-6 giorni, potrai scrivere su di me. Vorrà dire che sono morto. Ho assunto una dose letale. Mi dispiace”. E’ l’ultimo messaggio Telegram di Vladislav Pavlovich Kolesnikov, russo, 18 anni da poco compiuti, rilasciato sulla bacheca di una giornalista di Radio Free Europe, Claire Bigg. Era il giorno di Natale, ora di pranzo.

I giornalisti occidentali si erano interessati al caso di questo teenager russo, che mai prima di quest’anno si era impegnato in politica, per un semplice atto di dissenso. A Mosca, a scuola, l’allora diciassettenne Kolesnikov, in uno degli ultimi giorni di lezione, si era presentato con una maglietta con i colori della bandiera ucraina e la scritta “Restituite la Crimea”.

In Italia siamo abituati a vedere tanta gente (anche politici di spicco) con la maglietta di Vladimir Putin. In Russia se ne vedono molti di più. Ma indossare una maglietta con i colori dell’Ucraina e una contestazione dell’annessione della Crimea può costare molto caro. I primi a far pagare la “bravata” di Kolesnikov sono stati i suoi compagni di classe, che lo hanno pestato a sangue poco più di una settimana dopo. Poi è arrivata la polizia, che ha iniziato a chiamarlo in commissariato per interrogarlo. Poi le autorità scolastiche che lo hanno espulso dall’istituto, con una lettera in cui gli dicevano che “accettava il ritiro di sua scelta”, ma senza possibilità di replica. Infine, ma non da ultimo, ci si è messo il nonno, presso cui viveva. Lo ha buttato fuori di casa, imbarcato su un treno e spedito nell’originaria Zhigulyovsk, una cittadina non troppo ridente della Siberia.

A peggiorare ulteriormente le cose è stata la stampa popolare, il tabloid Komsomolskaja Pravda, che ha intervistato il nonno e ha sparso la voce, urbi et orbi, che Vladislav era un ragazzo “grasso e pigro” e “pronto a servire l’Occidente”. Dopo questo atto di stalking nazionale a mezzo stampa, le autorità militari hanno posto il loro timbro su un certificato di devianza morale e mentale, diagnosticando per il ragazzo, ancora diciassettenne, un “disturbo di personalità”. E con questa nomea alle sue spalle, la vita del ragazzo nella città siberiana si è trasformata in un incubo, fatto di interrogatori di polizia, botte dei vicini di casa e tantissimo isolamento. “Anche nei miei peggiori incubi non avrei mai immaginato di mettere in moto un meccanismo del genere con un pezzo di stoffa e una bandierina”, confidava Kolesnikov sui social network. Non è servita a nulla l’indesiderata notorietà del suo caso in Occidente, dove diversi giornalisti hanno iniziato a seguirlo e parlare con lui online. L’incubo di questo adolescente è durato finché non è stato lui stesso a por fine alla sofferenza, con una dose letale di farmaci.

La nuova Russia ricorda, a tratti, la defunta Unione Sovietica, per la facilità con cui si viene marcati come nemici del popolo, la leggerezza con cui vengono spiccate diagnosi psichiatriche che suonano come sentenze, l’isolamento forzato e l’ostracismo a cui sono sottoposti i dissidenti o presunti tali (Kolesnikov non lo era, ha semplicemente espresso un’idea in modo provocatorio). La novità è la spontanea adesione popolare a questa macchina della repressione. Nell’Urss nessuno difendeva i dissidenti, più per paura che per entusiasmo. Ai nostri giorni, nella Russia di Putin, a far la differenza è proprio l’entusiasmo della maggioranza, della folla, che si dimostra più realista del re.

Un ruolo importante, in questa fanatizzazione delle masse, lo sta giocando anche la Chiesa ortodossa russa. La storia dello studente capita proprio nel bel mezzo di una vicenda interna alla Chiesa che è molto significativa. In una sola settimana, sono stati “epurati” due personaggi in vista: il 28 dicembre è stato rimosso l’arciprete Vsevolod Chaplin e appena una settimana prima era toccato a Sergej Chapnin, direttore della rivista ufficiale del Patriarcato di Mosca. In entrambi i casi, sono stati licenziati dopo aver contestato lo Stato russo. “Ho provato a dire a Sua Santità che il tono delle relazioni con lo Stato che la Chiesa tende ad avere è sbagliato - dichiarava l’arciprete Chaplin all’agenzia Interfax, invitando i suoi correligionari ad avere un atteggiamento più critico nei confronti del potere politico.

Che la Chiesa russa si stia trasformando nel braccio spirituale del Cremlino ne era convinto anche Chapnin, l’ex direttore della rivista ortodossa. Nel suo rapporto inviato al Carnagie Center di Mosca, aveva puntato il dito proprio contro il silenzio, il conformismo, di una Chiesa appiattita su uno Stato post-sovietico. Oltre a una forte critica nei confronti del patriarca Cirillo e al suo accentramento di potere, Chapnin rilevava nuove tendenze ben poco religiose, come quella di mettere sullo stesso piano eroi di guerra (anche sovietici) con i santi. “Io la chiamo la religione post-sovietica civile – scrive Chapnin - che incorpora sia le tradizioni ortodosse che la nostalgia per il passato sovietico e il sogno di un impero forte”. Ma soprattutto denunciava anche una deriva violenta: “Con questo teppismo Enteo (leader del movimento “Volontà di Dio”, responsabile di atti di teppismo contro musei ed eventi culturali laici, ndr) e i suoi soci hanno rivelato il grave problema della Chiesa russa, hanno reso chiaro ed evidente che le persone di Chiesa sono divise in due campi” in cui uno è quello dei fedeli che “sono in sintonia con l’uso della violenza in nome di obiettivi politici ed economici”. “La violenza è diventata per un gruppo significativo del clero e dei laici un atto cristiano accettato e qualificato”. “Questi attivisti ortodossi invece di essere condannati dall’opinione pubblica ecclesiastica, in realtà diventano eroi”. “Se la propensione alla violenza e alla sua giustificazione sarà una caratteristica dell’ortodossia moderna rimane una domanda aperta. La tentazione è grande”.

E anche a noi occidentali resta aperta una domanda: fin dove vuole spingersi il nazionalismo russo? E a cosa può portare?