Se vince Rivera: consigli semiseri ai liberali italiani
Istituzioni ed economia
Domenica si vota in Spagna, e tra i candidati al successo c'è l'astro nascente di Ciudadanos, Albert Rivera, l'estremista di centro che nei sondaggi viaggia verso il 18 per cento, ha scassinato il bipolarismo spagnolo e sarà l'immaginabile arbitro di un governo di coalizione guidato dai Popolari, con il Psoe e Podemos all'opposizione.
Rivera è un personaggio interessante. Ha fatto quel che in Italia non è riuscito a Giannino, a Zingales e un po' anche a Monti: infilare un cuneo tra destra e sinistra e costruire un partito delle elite che però avesse seguito popolare. Molto c'entra il fatto che non è un professore ma un ex campione di nuoto: i professori ce li ha alle spalle (l'accusa classica contro di lui è di essere teleguidato dai circoli economici), ma non li porta sul palco. Sa che le percentuali a due cifre non si fanno con gli accademici, e questo è segno di buonsenso. Ma ci sono altri suggerimenti che arrivano dalla sua esperienza e vale la pena di sottolineare qui, in una rivista letta da tanti che si sono dannati cercando la terza via di Rivera ma non l'hanno ancora trovata.
Innanzitutto. La vena di bizzarria che sempre coltiva il mondo liberale può aiutare coi media – Rivera, per dirne una, qualche anno fa comparve nudo sui manifesti per la campagna elettorale in Catalogna – ma le sciarpe risorgimentali di Della Valle, le ghette di Giannino e gli eccessi di gel di Zingales, sono troppi e troppo ripetitivi. Il mondo dei liberali italiani ha dato sempre l'idea di una gara di cantanti liriche in declino, che sgomitano per eclissare le altre. Non va bene. Non rende: la politica è pur sempre un prodotto collettivo, se vuoi essere la Callas meglio che studi da soprano, non da premier.
E poi, questa ossessione delle definizioni novecentesche. Rivera non dice destra. Non dice sinistra. Non dice centro. Non dice neanche liberale, occidentale, capitalista, collettivista, statalista, né quando aggettiva se stesso né quando critica i suoi avversari. Anche grazie a questo prende voti a tutti. Più alla sinistra che alla destra, tant'è che sono quelli di Podemos quelli davvero spaventati dal suo successo.
Rivera non ha paura di attraversare i confini ideologici del suo posizionamento. Si è fatto un nome e una reputazione cavalcando l'orgoglio spagnolo contro l'indipendentismo catalano ("Nazionalismo! Roba di destra!" avrebbe detto un liberale di quelli che conosciamo noi). Propone l'integrazione dei salari troppo bassi ("Assistenzialismo! Roba di sinistra!" avrebbero strillato i nostri). Chiede sei mesi di permesso retribuito alle neo-mamme ("Parassitismo! Oltraggio alla parità!"). Insomma, ascolta il Paese, si fa interprete di esigenze diffuse e le colloca in una cornice ultra-europeista dicendo: voglio una Spagna come la Germania e la Danimarca, solo l'Europa può consentirci di ottenerla (e qui i liberali nostri si sarebbero messi a discutere sul modello tedesco e danese, trovandoli entrambi difettosi, e suggerendo piuttosto quello del pianeta Tatooine, però con modifiche).
Non voglio fare l'elogio di Rivera, che ha le sue fragilità, compresa quella – forse – di essere un po' “pompato” nei sondaggi della vigilia. Ma può darsi che usare la sua biografia sia utile a capire che non è più tempo di ossessioni identitarie e di Pantheon indiscutibili, neppure nell'area liberale.
Albert ha fatto sua la lezione politica di altri populismi di successo, dalla Le Pen a Tsipras, a cominciare dalla necessità di riporre in cantina l'album di famiglia, qualsiasi camicia indossassero i padri e i nonni. Mai lo sentirete citare le icone del liberismo, dalla Thatcher a Reagan, né la scuola di Chicago: l'unico nome che gli sfugge ogni tanto è quello di Adolfo Suarez, l'artefice della transizione spagnola dal franchismo alla democrazia, il centrista capace di riunire falangisti convertiti, socialdemocratici, liberali e democristiani ma anche di legalizzare il partito comunista e di dare al Paese la prima costituzione democratica. Una scelta forse furba, visto che di Suarez in Spagna non si può parlar male, un po' come Garibaldi in Italia. Ma ai nostri – che sono sicura avrebbero da obbiettare pure su Garibaldi – pure un po' di furbizia tattica non farebbe male.