L'attacco di Parigi e i nuovi morti della guerra che non c'è
Istituzioni ed economia
Non si comprende, stamattina, se il senso di inadeguatezza che ci pervade dopo la spaventosa notte parigina derivi più dalle enormi proporzioni dell’attacco che la capitale francese ha subìto, o piuttosto dall’ossessiva ricerca dell’iperbole che ha contagiato fin dai primi minuti i social network, i siti di informazione online e adesso le prime pagine dei giornali, inversamente proporzionale al sostanziale vuoto di informazioni e certezze che abbiamo sull’accaduto e sulla sua reale portata.
Quel che sembra certo, ancora una volta, è che la serie di attentati di Parigi sfida il lato più intimo delle nostre libertà: non la libertà delle dichiarazioni solenni, ma quella fatta di consuetudini, di leggerezza e piccole imprudenze quotidiane che in decenni hanno cementato il nostro senso di invulnerabilità, rendendolo parte irrinunciabile del nostro modo di intendere una vita degnamente vissuta.
Lo stato di emergenza, dichiarato nella notte in Francia, non è né inutile, come molti hanno detto - la stalla chiusa dopo la fuga dei buoi - né fa il gioco dei terroristi, come recita un’altra vulgata che vorrebbe nella rimozione della realtà l’antidoto più efficace alla durezza della realtà. Lo stato di emergenza fa parte della terapia, e quello che oggi possiamo augurarci è che la terapia sia affidata a mani esperte e dotate di autocontrollo, dal momento che autorizza la limitazione traumatica e sostanziale della libertà di circolazione, di associazione, riunione, stampa ed espressione.
Piuttosto, dello stato di emergenza, colpisce in fondo che sia uno strumento antiquato, concepito nel secolo scorso e applicato l’ultima volta durante la guerra d’Algeria, quando a suscitare apprensione potevano essere gli assembramenti nelle piazze e nei teatri piuttosto che la comunicazione rapida, e impalpabile della rete, e la flessibilità high-tech della jihad europea. Anche l’inadeguatezza degli strumenti di reazione è un prodotto della rimozione collettiva della guerra e dei disagi che ad essa si accompagnano, che più di ogni altra cosa sembra essere oggi lo stucco dell’identità europea. Non è tanto la non-convenzionalità della guerra in corso a renderci impotenti - anche le guerre più convenzionali si combattono attraverso inganni e dissimulazioni che arrivano anche a camuffare l'identità del nemico - quanto il fatto di averne preferito ignorare l'esistenza ormai da un quindicennio. Al di là delle polemiche da ballatoio - o da prima pagina - il problema non è tanto se si tratti o meno di una guerra di civiltà - chissenefrega, in fondo - ma se si tratti di una guerra reale, una minaccia permanente alla quale va data una risposta adeguata e permanente. A Parigi, in queste ore, si sta aggiornando proprio il bilancio delle vittime della guerra che non c'è.
Oggi la cronaca ci rivela l’impotenza delle agenzie di intelligence nazionali: i terroristi sembrano agire in trasferta, riportano alcuni analisti e gli ultimi rapporti dell’intelligence francese, dal momento che sono meno controllabili nel momento in cui varcano i confini di uno Stato ed entrano nella sfera di influenza di un altro servizio di sicurezza, che di loro magari non ha notizia. L’idea che l’intelligence diventi una questione europea è quindi prima di tutto una questione pragmatica e di efficienza, una delle tante, prima che un appello idealistico: immaginiamo cosa sarebbe successo dopo l’11 settembre se la sicurezza del territorio degli USA fosse stata affidata a 50 piccole CIA, comunicanti magari tra loro ma non completamente integrate, a partire dalle catene del comando e della responsabilità.
Ecco, se c’è una cosa che a caldo possiamo provare a imparare - a caldo rispetto all’attentato di stanotte, ma molto a freddo rispetto all’11 settembre e agli altri attacchi subiti da allora - è quella di adeguare la reazione alla natura dell’attacco. Questo richiede nervi saldi, capacità di analisi - pragmatica, non ideologica - flessibilità e rapidità di intervento, oltre alla consapevolezza che ci saranno dei costi, anche alti, da pagare. Continuare a rimpallarsi le frasi fatte dei Gini Strada e delle Oriane Fallaci non servirà a molto.