Vladimir Putin e il rimpianto per la prigione delle nazioni
Istituzioni ed economia
In un’Italia in cui la destra è sempre più in ammirazione del presidente russo, il discorso di Vladimir Putin all’Onu sta diventando una nuova “pietra miliare” da divulgare su tutti i social network. Di fronte all’indecisione mostrata da Barack Obama e dalle democrazie occidentali nei confronti del pericolo Isis, piace questo presidente russo decisionista che propone una coalizione internazionale contro gli jihadisti, come a suo tempo fu la coalizione delle Nazioni Unite contro Hitler. Il suo discorso, però, va letto alla luce della realtà. E soprattutto: alla luce della realtà del grande spazio post-sovietico e delle politiche fin qui seguite dalla Russia. Se ci si toglie le lenti distorcenti della retorica, quel che Putin propone appare molto meno poetico.
Primo: il rimpianto per il bipolarismo che fu. E’ il principale espediente retorico del presidente russo che, non molti anni fa, commentò la fine dell’Urss come la “più grande catastrofe geopolitica del XX Secolo”. Putin rimpiange il bipolarismo Usa-Urss perché vorrebbe riconquistare il ruolo che fu dell’Unione Sovietica. Considera “pericoloso” il presunto “unipolarismo” americano e punta il dito contro la sua presunta volontà di uniformare il mondo al modello democratico, senza tener conto che l’unipolarismo americano non è mai esistito, non è mai stato istituzionalizzato e nessun presidente statunitense ha mai voluto che esistesse. L’unico che parlò di “nuovo ordine mondiale” fu George Bush padre, che voleva l’Urss di Gorbachev al suo fianco, come garante dell’ordine. Mentre la tendenza alla democratizzazione è stata espressa, in primo luogo, da tutte quelle nazioni dell’Est europeo che si sono liberate dal dominio sovietico e hanno chiesto di aderire alla Nato e alla Ue per proteggersi da eventuali ritorni di fiamma del tragico passato totalitario.
Il rimpianto per i tempi della guerra fredda rimuove volutamente dalla memoria collettiva quel che era, in realtà, il blocco orientale: il più grande campo di concentramento a cielo aperto, una vera prigione delle nazioni, in cui perirono, dal 1945 al 1989, almeno 21 milioni di persone (stime del professor Rudolph J. Rummel), assassinate dai propri stessi regimi, da quello sovietico e da quelli europei filo-sovietici. E’ un numero di vittime quasi pari a quello dei morti in battaglia della Seconda Guerra Mondiale, pur se in tempo di “pace”. E’ questo il prezzo dell’equilibrio che si rimpiange?
La stessa logica, secondo cui è meglio accettare un genocidio in casa che l’instabilità all’esterno, spinge Putin a considerare il Medio Oriente come terra per dittatori. Contesta alle democrazie occidentali la voglia di “destabilizzazione”, cioè il loro sostegno iniziale a rivoluzioni scoppiate contro regimi socialisti (ex alleati dell’Urss) ormai decotti, corrotti e palesemente criminali. Saddam Hussein, Hafez e poi Bashar al Assad, Muhammar Gheddafi, sono responsabili di un numero di morti inferiore rispetto a quelli provocati dal defunto regime sovietico, ma stiamo comunque parlando di massacri nell’ordine di centinaia di migliaia di vittime. Che da questi mattatoi desertici siano scoppiate rivoluzioni, e poi un impazzimento collettivo che ha portato alla nascita dell’Isis e altri gruppi terroristi, è comprensibile solo se si conosce la natura criminale di quei regimi. La soluzione di Putin è solo quella di ripristinarli. Così facendo, non risolverebbe il problema alla radice, si limiterebbe semplicemente a riproporre lo stesso problema. E sempre nel nome della solita nostalgia per il bipolarismo della guerra fredda: tutto quel che interessa a Mosca, infatti, è di mantenere basi militari nel Medio Oriente e crearne di nuove. Non per altro: solo per continuare a sfidare la Nato (cioè noi) nel Mediterraneo.
La parte più ambigua, forse anche involontariamente comica, del discorso di Vladimir Putin è quella riguardante l’Ucraina, una nazione destabilizzata e poi smembrata militarmente dalla Russia. La tesi di Putin, che sin qui ha perorato la causa della stabilità a tutti i costi, per l’Ucraina cambia: non si può (a suo dire) preservare l’unità nazionale con la forza delle armi, non si può non ascoltare la voce dei separatisti che vorrebbero tornare a far parte della Russia. Putin lo stabilizzatore, quando guarda vicino ai suoi confini, si trasforma nel Putin “liberatore” dei russi in casa altrui. L’intento è chiaro e il discorso è coerente solo se si guarda, ancora una volta, all’obiettivo di fondo di tutto il discorso: ripristinare, con la Russia, la superpotenza sovietica e il suo ruolo nel mondo. L’Ucraina era considerata essenziale nella strategia imperiale di Mosca ed è chiara l’intenzione del Cremlino di riprendersela, con le buone o con le cattive.
Il presidente russo accenna anche ad altri grandi temi del presente, quali l’integrazione dei mercati e la lotta al global warming. Ma anche qui, pur navigando in acque non sue, Putin dimostra ancora una volta la sua impostazione puramente sovietica, proponendo una integrazione di blocchi economici (prima di tutto con la Cina, poi anche con l’Europa) che sa di Comecon, di coordinamento economico pianificato dallo Stato e non certo di libero mercato. E anche sul global warming, propone l’istituzione di un nuovo organismo internazionale per lo studio di nuove tecnologie pulite, anche qui ricordando lo stile dei leader sovietici che creavano organismi internazionali e transnazionali per ogni cosa (per la pace, per la fame nel mondo, ecc…) per infilarcisi dentro e influenzare l’opinione pubblica.
Quello all’Onu è stato il discorso dell’ultimo leader sovietico, nulla di diverso rispetto ai vari Chrushev, Brezhnev, Andropov e Chernenko (già Gorbachev pareva un rivoluzionario, a confronto) quando rivolgevano le loro prediche staliniane al Palazzo di Vetro. Non è il nuovo che avanza, ma il vecchio che ritorna. Ma il colmo è che adesso piaccia a destra, proprio fra quella parte di opinione pubblica che, nel corso della guerra fredda, non si era mai fatta illudere dalla retorica degli inquilini del Cremlino.