Tutto quello che viene pubblicato sulle riviste scientifiche è verificato e riproducibile? In teoria sì, ma in pratica il sovraffollamento delle pubblicazioni genera un labirinto nel quale è sempre più difficile sia il controllo che la condivisione delle informazioni.

Ovadia corridoio

Era il primo febbraio del 1982 quando la rivista medica Annals of Internal Medicine pubblicava una lettera alla redazione dal titolo "A solution for many papers” (una soluzione per troppe pubblicazioni) in cui l’autore affermava: “In questo periodo in cui tutti hanno improvvisamente deciso che è ora di avere il proprio nome stampato su un articolo, siamo bombardati da una pletora di riviste mediche che ripetono gli stessi argomenti clinici. Per anni, invece, l’enfasi nel pubblicare era stata su informazioni nuove e utili. Questo è cambiato drasticamente”.

Dopo trentacinque anni la situazione è addirittura peggiorata: uno studio pubblicato sulla rivista Scientometrics nel 2010 mostra un tasso di crescita delle pubblicazioni scientifiche pari al 5,6 per cento annuo, con un tempo di raddoppio della massa di studi di soli 13 anni. Dopo soli 4 anni dallo studio di Scientometrics, nel 2014, la rivista Nature ha rifatto i conti e stimato un tempo di raddoppio di nove anni.

Una “sovrappopolazione” di informazioni spaventosa, se consideriamo che il tasso di crescita annuo della popolazione mondiale è dell’1,1 per cento, sufficiente a preoccupare gli esperti. Molti studi, infatti, non si traducono in maggiore conoscenza.

Il primo problema che la medicina moderna deve affrontare è come distinguere le nuove informazioni davvero utili dalla grande massa di dettagli. Un’analisi condotta nel 2015 da un gruppo di ricercatori californiani e finlandesi e pubblicata col titolo “Attention decay in science” (ovvero “calo dell’attenzione nella scienza”) denuncia l’impossibilità, per uno scienziato, di star dietro a tutte le pubblicazioni del proprio settore. Emergono dal rumore di fondo gli studi pubblicati da amici e conoscenti, quelli che giungono sui media e vengono scoperti perché citati sui quotidiani o in TV oppure quelli che vengono pubblicati su riviste ad alto impatto come Science e Nature, che proprio per questo risultano molto generici e poco focalizzati sugli aspetti pratici di gestione delle malattie.

C’è chi si è reso conto del rischio che corre la medicina del futuro: sono i tycoon della Silicon Valley, capitanati da Bill Gates e dalla sua fondazione. Il progetto della Gates Foundation - lanciato nel gennaio del 2017 insieme all’annuncio che tutte le ricerche finanziate dalla fondazione stessa devono d’ora in poi essere accessibili senza abbonamento e prepubblicate in un archivio digitale simile a quello che già utilizzano da molti anni gli studiosi di fisica - taglia fuori tutte le più prestigiose riviste scientifiche, che per ora restano saldamente legate al modello di accessibilità dietro costosi abbonamenti per consentire agli scienziati di “navigare” tra le pubblicazioni con gli strumenti del data mining, ovvero con programmi speciali che estraggono informazioni da grandi moli di dati.

Anche questa però potrebbe essere una soluzione solo parziale al problema della crescita incontrollata della ricerca biomedica. Il convitato di pietra si chiama infatti “riproducibilità”, uno dei capisaldi del metodo scientifico che presuppone che ogni ricerca possa essere riprodotta con gli stessi risultati da chiunque segua il protocollo originario.

Siamo di fronte a una crisi di riproducibilità in biomedicina, non diversa da quella emersa qualche anno fa in psicologia, ma con implicazioni pratiche molto maggiori” spiega sulla rivista Slate il giornalista scientifico Daniel Engber. “Analisi dei dati di scarsa qualità, materiali di laboratorio contaminati, disegni sperimentali deboli hanno contribuito al problema”.

Leonard Freeman, uno scienziato che ha lavorato in ambito farmacologico sia per università sia per aziende farmaceutiche, ha pubblicato nel 2015 sulla rivista PlosOne un’analisi economica dell’impatto della scarsa riproducibilità in campo farmaceutico, stimando che oltre il 50 per cento dei risultati ottenuti poggi su basi traballanti e non possa essere riprodotto. “La bassa riproducibilità mina la produzione cumulativa di conoscenza, contribuisce a ritardare la messa a punto di terapie efficaci e aumenta i costi delle stesse” scrive Freeman.

Per molti anni i medici hanno pensato che la mancanza di riproducibilità non fosse un loro problema: in fondo, se una cura non funziona, si vede subito. La realtà ha dimostrato che il loro era un eccesso di ottimismo: il tempo necessario alla messa in commercio di una cura, la spinta del marketing farmaceutico e la stessa lenta evoluzione della maggior parte delle malattie nel mondo industrializzato fanno sì che la consapevolezza dell’inutilità di certi interventi terapeutici o diagnostici arrivi con anni di ritardo. Nel frattempo si sono spesi soldi, si è ritardata la messa a punto di eventuali strategie alternative più efficaci e, soprattutto, si è minata la fiducia dei pazienti e dei consumatori nel progresso continuo della medicina moderna.

Proprio il tema della fiducia è alla base delle rimostranze di alcuni medici e scienziati nei confronti di chi vuole portare alla luce del sole, sui giornali per il grande pubblico come Strade, il complesso sistema all’interno del quale si sviluppa la medicina moderna. Lo sa bene Ivan Oransky, giornalista scientifico e medico, fondatore con Adam Marcus del blog “Retraction Watch”, che cerca di tenere traccia di tutte le ricerche scientifiche ritrattate dalle riviste, spesso accusato di aver gettato in pasto a un pubblico incapace di gestirne il reale significato il tema delle frodi e degli errori nella scienza, invece di lasciare che i panni sporchi venissero lavati in famiglia, all’interno delle comunità di esperti.

“Le riviste scientifiche funzionano sulla base di un sistema interno di controllo. Lo scienziato o il medico che scrive un articolo sa che questo verrà mandato per controllo a due o più esperti del settore, che ne dovrebbero verificare l’attendibilità. Solo chi passa questa revisione tra pari accede alla pubblicazione. Ma nel mondo della medicina il revisore può soltanto valutare lo studio in modo superficiale, soffermandosi sulla metodologia usata e sul disegno sperimentale. Non ha accesso ai dati grezzi, non può rifare i conti presentati dai ricercatori, non vede i pazienti e nemmeno le singole cartelle cliniche o gli esami” spiega Oransky.

Capita quindi che, a distanza di mesi e talvolta di anni, qualcuno si accorga che un articolo contiene informazioni inattendibili perché false (come in caso di frode scientifica) o perché copiate da altri studi (come nei casi di plagio) e proponga alla rivista di ritrattare lo studio. Talvolta le testate accettano e annunciano che lo studio è stato ritrattato con una piccola nota nel primo numero cartaceo disponibile e sulla versione online. Gli altri medici o scienziati possono non essere consapevoli del fatto che uno studio da loro precedentemente apprezzato e citato è stato ritrattato, perché tutto avviene un po’ in sordina, tranne che nei casi di frode eclatante.

“Il nostro blog è nato per questo: diamo pubblicità alle ritrattazioni e, soprattutto, spieghiamo perché, in modo che il lettore possa decidere che cosa fare delle informazioni contenute nello studio originario” racconta ancora Oransky nella presentazione del suo sito. Retraction Watch conta oggi 150.000 visitatori unici al mese, da tutto il mondo. Grazie al lavoro di Oransky e Marcus sappiamo che sono tra 500 e 600 i lavori scientifici che ogni anno vengono ritrattati nel solo settore biomedico, con un incremento del 20-25 per cento negli ultimi cinque anni, su un totale di circa 10.000 riviste mediche. E il loro non è ancora un database sistematico, perché non hanno i soldi e le forze per renderlo tale, tante sarebbero le testate da controllare.

Quindi, oltre a trovare l’informazione utile come un ago nel pagliaio delle migliaia di pubblicazioni, un medico che voglia davvero stare al passo con i tempi deve anche verificare periodicamente se le conclusioni delle ricerche sulle quali basa i propri comportamenti sono ancora sufficientemente solide.

Il problema delle ritrattazioni impatta in modo limitato sulla medicina di base, quella che cura le malattie più comuni e più frequenti, ma può avere un’influenza importante nei settori più avanzati, dove i farmaci innovativi e le nuove tecnologie hanno un ruolo essenziale nel prolungare la vita dei malati.

E i pazienti, in tutto ciò? Se la vita di medici e scienziati che desiderano prendere decisioni informate è diventata durissima, quella dei pazienti lo è ancora di più.

Una quantità ormai imponente di letteratura scientifica dimostra che le decisioni in materia di salute non vengono prese sulla base delle sole considerazioni razionali, ma anche di credenze precostituite, sistemi valoriali, paure irrazionali e ingiustificate che non sempre l’individuo è capace di gestire. In particolare, le decisioni in medicina si scontrano con la difficoltà, per le persone comuni ma anche per i medici, di soppesare in modo obiettivo rischi e benefici delle diverse scelte.

È meglio trattare un tumore prostatico in fase iniziale, sapendo che in molti casi regredisce spontaneamente mentre un intervento chirurgico può lasciare strascichi anche invalidanti, oppure è meglio operare perché in rari casi anche tumori apparentemente innocui danno origine a metastasi? Davanti a una incertezza condivisa anche dai ricercatori, le linee guida internazionali consigliano la cosiddetta “vigile attesa”, ovvero nessun intervento ma controlli serrati. La decisione, però, dicono gli esperti, deve essere lasciata al paziente, perché nel valutare rischi e benefici ha un ruolo anche la personalità individuale: un ansioso non potrebbe reggere una strategia d’attesa, mentre un uomo timoroso degli effetti dell’intervento potrebbe preferirla.

Il caso del cancro prostatico è esemplificativo del moderno approccio alla medicina, basato sulla gestione dell’incertezza e sul cosiddetto “empowerment” del paziente, ovvero sulla sua sempre maggiore autonomia decisionale, seppure guidata dalle conoscenze del curante.

Un approccio bellissimo in teoria, ma che si scontra con la difficoltà delle persone comuni nel fare i conti con informazioni che richiedono dimestichezza con alcuni concetti di base della statistica, con la difficoltà dei medici di stare al passo con il progresso delle conoscenze e con una generale perdita di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche, come il Ministero della salute o l’Istituto superiore di sanità, che dovrebbero semplificare la vita di tutti facendo il lavoro di sintesi e offrendo strumenti agili come linee guida e documenti di indirizzo, oggi frutto, nella maggior parte dei casi, delle attività delle società scientifiche in gran parte create e sovvenzionate dalle industrie del farmaco, come denuncia la rivista medica JAMA in un recente numero monografico dedicato ai conflitti di interesse in medicina.

La soluzione, secondo Richard Harris, giornalista scientifico e autore di un libro appena uscito negli Stati Uniti dal titolo “Rigor Mortis – How sloppy science creates worthless cures, crushes hope and wastes billions” (Rigor mortis: come una scienza debole crea cure inutili, distrugge speranze e butta via miliardi) non può essere una sola: “È un problema di sistema, la cui soluzione deve partire da una riforma della ricerca biomedica, passare per nuove modalità di controllo e di formazione dei medici, modificare il ruolo delle agenzie pubbliche di tutela della salute per approdare infine ai pazienti e al loro diritto a una informazione trasparente”.