Vinted big  

Abbiamo troppe cose, la società dei consumi pur convintamente difesa qualche mese fa proprio da queste parti – il capitalismo d’accumulazione, basato sul sottoconsumo, non generò null’altro che miseria – la società dei consumi comunque presenta il conto due volte: in termini economici poco prima dell’uso e in termini spaziali subito dopo il disuso. Si tratta di spazio privato, con gli armadi che scoppiano e i cassetti pieni del sogno di svuotarli un po’, cantine e sgabuzzini e box (per chi li ha) con la superficie calpestabile ridotta ai minimi termini; e anche e soprattutto di spazio pubblico – siamo già alla questione ecologica – perché nella stragrande maggioranza dei casi quel che si acquista al massimo si può deteriorare un po’, può incappare nella propria obsolescenza programmata, materiale o “ex lege”, ma mica si smaltisce da sé prima del disuso o subito dopo. Accumuliamo un sacco di vestiti. Ogni secondo l'equivalente di un camion carico di vestiti – per l’appunto – viene bruciato o portato in discarica, scriveva su Repubblica Daniele Di Stefano, lo scorso 23 dicembre. Dal 2025 in UE si differenzieranno anche i rifiuti tessili, in Italia forse dal 2022, ma intanto che si fa? Non lo metti? Mettilo su Vinted!

Dove altro metterlo, altrimenti?

I punti vendita di alcuni marchi di fast fashion, principali responsabili del sovra-consumo di abiti cool ma a buon mercato, ricevono indumenti usati per riciclarne i tessuti meno usurati; poi c’è la Caritas; poi ci sono le “campane” (nei comuni che funzionano…) e infine c’è la criminalità organizzata. Vinted non è la prima piattaforma di abiti usati (strutturata come un social network, dunque funzionante), già dieci anni fa nacque l’assai pionieristica Depop, ma vista la massiccia campagna mediatica e l’impatto della stessa e complice la pandemia – riordiniamo casa, i cassetti gli armadi le cantine ecc., ottimizziamo gli spazi – è certamente la piattaforma che ha innescato la massificazione del fenomeno. Spiritualmente, peraltro, la “de-stigmatizzazione” totale degli indumenti usati, è già pressoché completata altrove – si avviò probabilmente qualche decennio fa in USA – e a buon punto dalle nostre parti. Magari a brevissimo (o forse di già) acquistare una polo second-hand o pre-loved (!), come dicono nei Paesi anglofoni, sarà socialmente e dunque individualmente accettato come acquistare un’auto usata.

Ecco: le auto usate. Le auto usate sono il paradigma delle asimmetrie informative – il venditore ha più informazioni sul prodotto di quante non ne abbia l’acquirente – e cioè di una delle cause dei fallimenti del mercato; George Akerlof, economista statunitense, nel 2001 co-vinse il Nobel proprio grazie a un articolo sul mercato dei lemons (i bidoni, diremmo noi: è una traduzione un po’ impresentabile, ma tant’è) pubblicato nel 1970: le auto usate sono spesso e volentieri affette da quello che, in giuridichese, viene definito “vizio occulto della cosa”; più prosaicamente e forse esotericamente, dalle nostre parti in riferimento alle automobili-bidone si parla di “macchine maledette” (un po’ come la mela di Grimilde, t’avvelenano di appuntamenti in sequenza da meccanico ed elettrauto pur apparendo in ottime condizioni): ad ogni modo il venditore sa ma l’acquirente no, lo scoprirà.

L’acquirente, per tornare agli indumenti usati, scoprirà anche che quella polo è sagomata… asimmetricamente: deforma orribilmente il torace. È facile intuire, dunque, che l’e-commerce, soprattutto se si tratta di beni usati, tenderebbe a massimizzare il fenomeno… se non fosse che il mercato stesso e i policy maker da decenni riescono per converso a minimizzarlo: Vinted – tornando al punto e per farla breve – fra le altre cose non ti accredita nulla finché l’acquirente non spunta “è tutto ok” dopo aver ritirato il pacco. E poi ci sono le recensioni e tutti gli altri meccanismi – come la tutela puntualissima ed efficientissima approntata dal servizio clienti di tutte le piattaforme big – già arcinoti a chiunque bazzichi la rete.

Certo, c’è il problema della vestibilità, di “vedersi addosso” l’indumento, il colore, passare i polpastrelli sul tessuto ecc.: ma questo significativo coefficiente di rischio – rischio di acquistare un capo che non ci soddisfi del tutto o non ci soddisfi affatto – viene compensato dai prezzi spesso e volentieri stracciati.
Nulla di nuovo, dunque.

Nulla di nuovo neanche sul piano più propriamente mercatologico: il brand è tutto – cavalli e coccodrilli, per fare un esempio, vanno a ruba, la potenza della loro riconoscibilità si proietta ben oltre la prima transazione di cui sono oggetto – e la vetrina è tutto, tante più sono le foto e tanto più sono ben fatte quanto meglio si venderà; si contratta, ma non tantissimo: ci siamo disabituati a mercanteggiare, vogliamo minimizzare i costi di transazione, ammenoché non siamo in spiaggia al cospetto di qualche ambulante pronti a monetizzare la nostra posizione di contraenti forti o quantomeno rilassati.

La Francia è il principale mercato di sbocco degli indumenti griffati: se volessimo aggiornare i cliché sui francesi, allo status di mangia-lumache andrebbe affiancato quello di svuota-armadi. Sarà la piccola borghesia proletarizzata che vuol continuare a votare Front National ma con stile, sarà che hanno pochi outlet, sarà che si è tanto sciatti sul piano della vestibilità quanto si è esigenti su quello delle griffe, chissà.

Sta di fatto che prima di ricevere un’offerta – molto probabilmente l’offerta di un francese – capita spesso di riscoprire l’utilità, il valore commerciale, “estetico” e magari affettivo di un capo abbandonato in fondo all’armadio; si sperimenta una sorta di psicologia della privazione potenziale, sarà una versione light e non patologica della disposofobia, la paura di disfarsi di qualcosa alla base del disturbo da accumulo, e magari quel capo lo si riqualifica pur non cominciando a re-indossarlo, o se va bene lo si re-indossa lo stesso giorno della riscoperta.

Forse, ottimisticamente, la democratizzazione – o, meglio, la massificazione – dei consumi ha innescato anche una democratizzazione della ri-vendita (il processo richiede i suoi tempi: E-bay fu fondata nel ’95) e forse, ancora, una sorta di "de-consumistizzazione" del nostro rapporto con le cose: la crescente sensibilità ecologica crea delle frizioni con gli “speedy-svuotamenti” indifferenziati a mezzo sacchi neri maleodoranti, mettere in vendita comporta dei costi in termini di tempo e praticità e pazienza che assai difficilmente vengono coperti dal prezzo della rivendita (fa’ delle foto passabili con una luce passabile, caricale, rifiuta l’offerta, fa’ una contro-offerta, fotografa l’etichetta per certificare l’autenticità dell’articolo, misura spalle e torace perché così t’ha chiesto quell’acquirente potenziale, confeziona, stampa l'etichetta, imballa, va al centro spedizioni). Fotografando le etichette, poi, si macroscopizzano tutti quei Made in Vietnam, Made in Sri Lanka, Made in China e per sovrappiù i più sensibili affrontano ulteriori costi psicologici pensando alla delocalizzazione e alle condizioni di lavoro della manodopera a bassissimo costo di altrove e alla leggerezza con cui si acquista qui.

Peraltro, se da utenti appena iscritti si vuol svendere e l'utilità unica che si vuol conseguire è quella di ottimizzare gli spazi, poi quando si fissa il prezzo – rammentando il costo e rendendocisi conto di quanto è ben messo il capo: magari è in disuso perché poco dopo quella taglia andava stretta o larga – ci si trasforma un po' in Ebenezer Scrooge, contrattando ci si impicca a un euro o poco più, si aggiornano compulsivamente notifiche e messaggi per monitorare lo stato delle cose, le visualizzazioni, quante volte un capo è stato aggiunto ai preferiti. Ansia di vendere congiuntamente ad ansia da social: stress.

Magari compreremo meno e compreremo meglio, pur senza indulgere nelle fantasie/distopie decrescitiste e antiliberiste che vanno per la maggiore: le piattaforme di e-commerce, in fondo, sono la quintessenza dell’efficienza allocativa e della “omeostasi” tipiche di un libero mercato munito di correttivi ordoliberisti minimi. Se si volesse qualificare il sovra-consumo, oltre una certa soglia, come un fallimento del mercato, allora quest’ultimo sta correggendo sé stesso senza la necessità di mani visibili o dello Stato-innovatore. C’è già Vinted.