biometano big 

Durante il lockdown della scorsa primavera resosi necessario per tamponare il rapido propagarsi dell’epidemia da COVID 19, si è verificato un fenomeno irripetibile per la sua natura e portata, un blocco importante del traffico veicolare sia per lunghezza temporale che per estensione territoriale. Interessante è l’analisi dell’impatto che ha avuto questo blocco sul livello di inquinamento atmosferico, in particolare in un area critica come la pianura padana caratterizzata da uno scarso ricambio d’aria. Dai dati presenti sul sito dell’Arpa Lombardia durante il lockdown si è rilevata una significativa riduzione degli inquinanti gassosi come gli ossidi di azoto, mentre per le polveri sottili, il cosiddetto particolato, non si è osservata un’analoga riduzione.

Questo diverso comportamento è da attribuire al fatto che mentre l’emissione degli ossidi di azoto è prevalentemente dovuta alla cessione diretta dagli scarichi dei veicoli a motore diesel, quella del particolato oltre a l’emissione diretta ha anche una componente secondaria molto rilevante. Il particolato viene immesso in atmosfera in forma diretta, in questo caso si parla di emissione primaria, soprattutto dai processi di combustione, ma esiste anche una forma di emissione secondaria dovuta al particolato che si forma dalle reazioni chimiche che avvengono in atmosfera.

Il particolato si distingue in base alle dimensioni, quello con particelle con dimensioni uguali e inferiori a 10 micron viene identificato con la sigla PM 10, quello più fine con dimensioni inferiori a 2,5 micron è il PM 2,5, quest’ ultimo è il più pericoloso in quanto grazie alle ridotte dimensioni riesce a penetrare in profondità negli alveoli polmonari. Il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici, alcuni possono essere molto pericolosi come i cancerogeni IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici), questi assorbiti sulla particelle che costituiscono il particolato sono in grado di permanere in atmosfera anche per settimane e possono essere trasportati anche per lunghe distanze. L'ammoniaca contribuisce in modo rilevante alla formazione in atmosfera del particolato secondario, in particolare il PM 2.5 grazie all’azione promossa dai nitrati e solfati d'ammonio derivati dall’ammoniaca, che può arrivare anche a costituire il 50% del totale della massa di particolato.

L’agricoltura contribuisce con il 94% alle emissioni di ammoniaca in atmosfera, la fonte principale è rappresentata dagli allevamenti intensivi, soprattutto bovini e suini. I rilasci d’ammoniaca provengono principalmente dalle deiezioni animali nei ricoveri (soprattutto urina), nelle zone di stoccaggio e dal loro spandimento nei terreni e in misura minore dalla degradazione dei concimi chimici distribuiti nei campi. La Lombardia è una regione di punta per la zootecnia italiana, il 25% dei bovini e il 75% dei suini italiani sono allevati in questa regione cuore della pianura padana. Secondo i dati misurati dall’Arpa lombarda, il settore zootecnico è responsabile del 98% delle emissioni totali in atmosfera dell’ammoniaca in Lombardia. 

Appare quindi in tutta evidenza il ruolo decisivo che l’ammoniaca riveste nella formazione degli inquinanti più pericolosi per la salute umana presenti nell’aria. Per ridurne le emissioni esistono diverse strategie, tutte incentrate in una diversa gestione delle pratiche di allevamento: spandimento interrato dei liquami, riduzione dell’apporto proteico nella dieta degli animali, aumento della frequenza di rimozione delle deiezioni con stoccaggio al coperto dei reflui. Attualmente sono a disposizione risorse a livello regionale in Lombardia per l’acquisto delle attrezzature necessarie per favorire le partiche di cui sopra e quindi ridurre l’emissione di ammoniaca, tuttavia sarebbe di gran lunga più efficace un cambiamento importante che vada nella direzione di un diverso smaltimento finale delle deiezioni, superando l’attuale pratica dello spandimento nei campi che rappresenta anche un pericolo per l’apporto di nitrati nelle acque di falda, a favore di un totale conferimento presso impianti che producono biogas.

Questi impianti sono in grado di convertire il letame, opportunamente mescolato con biomasse di varia origine, in biogas grazie all’azione decompositrice di alcuni microrganismi in condizioni di assenza di aria realizzata in vasche chiuse chiamate digestori. Il biogas non è altro che una miscela di metano con altri gas, in prevalenza anidride carbonica e acido solfidrico in misura minore, che se opportunamente eliminati con un sistema di purificazione può diventare biometano. Quest’ultimo ha un grado di raffinazione tale che lo rende idoneo per l’immissione diretta nelle reti di distribuzione del gas metano di origine fossile presenti nelle nostre città o nei distributori di gas metano per autotrazione. Il biometano può anche essere liquefatto con apposita attrezzatura negli stessi impianti per essere efficientemente trasportato e commercializzato ovunque.

Tra le varie biomasse utilizzabili nella produzione del biogas, oltre agli scarti agricoli di vario tipo, ci sono anche dei rifiuti che necessitano adeguato smaltimento come i fanghi provenienti dagli impianti di depurazione delle acque fognarie e la Frazione Organica del Rifiuto Solido Urbano (FORSU) proveniente dalla raccolta differenziata dei rifiuti che avviene nelle nostre città. Appare del tutto evidente come l’affermarsi di una tecnologia legata alla produzione e distribuzione del biometano, può rappresentare un volano per lo sviluppo economico del nostro paese, non solo per dare impulso ad un settore vitale specie per la Lombardia quale è quello agricolo, ma anche per migliorare lo smaltimento dei rifiuti urbani, ridurre l’inquinamento atmosferico e creare un’economia con minimo impatto ambientale. Si tratta di una situazione win-win, come direbbero gli inglesi, una fonte energetica basata sul diverso utilizzo di materie prime rinnovabili e rifiuti urbani dove che creerebbe un’ economia dove tutte le parti coinvolte avrebbero da guadagnare, soprattutto la collettività.

Con l’emanazione del decreto interministeriale “Promozione dell’uso del biometano nel settore dei trasporti” del 2 marzo 2018 si sono poste le basi per lo sviluppo del biometano in Italia incentivandone l’immissione nella rete del gas destinato all’ autotrazione. Nel provvedimento sono previsti incentivi allo sviluppo di nuovi impianti di distribuzione e liquefazione di biometano tramite il rilascio di Certificati di Immissione in Consumo (CIC) di biocarburanti. Gli incentivi si applicano ai nuovi impianti di produzione di biometano nonché agli impianti esistenti per la produzione e utilizzazione di biogas riconvertiti alla produzione di biometano entro il 31 dicembre 2022. Questo decreto ha anche aperto la strada per un utilizzo del biometano diverso dalla mobilità attraverso lo strumento delle Garanzie d’origine che permettono di certificare l’origine rinnovabile della fonte.

È opinione di chi scrive che la realizzazione di una fitta rete di impianti di produzione di biometano alimentati in prevalenza con liquami zootecnici e anche biomassa di scarto di origine agricola in Lombardia in primis, ma anche in tutta Italia, dovrebbe essere al primo posto nei capitoli energia-ambiente-infrastrutture dell’agenda del nuovo Ministero della transizione ecologica che il prossimo governo a guida Draghi si appresta a far nascere.

Per promuovere ulteriormente lo sviluppo di una economia basata sul biometano occorrerebbe: estendere la data del 31/12/22 per la conversione dei numerosi impianti di biogas esistenti in impianti capaci di produrre biometano, potenziare lo sforzo economico nel settore attingendo dalla quota dei fondi europei del Recovery Fund destinata agli interventi in materia ambientale, semplificare gli iter autorizzativi per la realizzazione di questi impianti, incentivare l’acquisto degli autoveicoli privati alimentati a metano e favorire l’adozione di mezzi alimentati a gas per i gestori del trasporto pubblico locale. Importante sarà anche sostenere l’implementazione dello strumento delle Garanzie d’Origine che consentirebbe lo sviluppo di un mercato attivo di scambi di quote di emissione.

La realizzazione di questa rete dovrebbe essere al centro della politica energetica del nuovo governo, perché a differenza del solare e dell’eolico si tratta di una risorsa programmabile, trasportabile e disponibile attraverso una infrastruttura di distribuzione già esistente come quella del metano. Sarebbe auspicabile, con opportuni interventi di semplificazione burocratica e sostegni economici, rendere l’iniziativa privata in campo agricolo la principale protagonista e beneficiaria di questa svolta. Tanto per cambiare, anche nel campo del biometano siamo il fanalino di coda rispetto ad altri paesi europei, ad esempio nel 2017 a fronte di 195 impianti attivi di produzione di biometano presenti in Germania, 92 in Gran Bretagna, 70 in Svezia e 44 in Francia se ne contava solo 1 in funzione in Italia.

Infine, non dovrebbe essere sottovalutato l’ostacolo culturale che in Italia occorrerebbe superare per rendere “popolare” l’adozione di una tecnologia come questa. A parole la “transizione ecologica” suona bene, ma nei fatti implica scelte non sempre popolari. Ammesso e non concesso che si riuscisse a far ben percepire al grosso della pubblica opinione che la filiera del biogas sia una innovazione amica dell’ambiente e benefica per l’economia, resta comunque il rischio che i sempre-pronti a nascere comitati del “NO agli impianti vicino a casa mia”, ispirati dalle fake news confezionate ad arte da benaltristi romantico-ecologisti di turno, spuntino come funghi a mettere i bastoni tra le ruote non appena cominciano a diffondersi gli impianti nel territorio. Occorrerebbe da parte del Governo Draghi e in particolar modo dal neo Ministro della transizione ecologica non sottostimare l’importanza di prendere in mano le redini del grande lavoro di comunicazione che dovrebbe essere fatto in materia di biometano, possibilmente basato su fonti autorevoli, evidenze tecnico scientifiche e che soffi forte come un vento soprattutto a livello degli enti locali per non ripetere gli stessi errori fatti con l’esperienza comunicativa della pandemia.
La tanto auspicata transizione ecologica priva di una vera transizione culturale non approderebbe da nessuna parte.