Calenda macchinari

La "svolta ambientale" che in tanti promuovono come fondamento della politica di ricostruzione post Covid sarà sensata solo se, anziché essere basata su nuovi vincoli e imposizioni tecnologiche, metterà in campo massicci investimenti industriali, infrastrutturali e tecnologici, per ricomporre la base produttiva andata persa fra 2008 e 2012 e quella che si sta dissolvendo in queste settimane di lockdown.

Laddove "base produttiva" è da intendersi nel senso più ampio del termine, ovvero catena del valore che va dagli spin off accademici, passando per gli stabilimenti produttivi fino all’installazione di impianti o apertura dei cantieri. In un primo momento, data la perdurante incertezza, si dovrà fare affidamento soprattutto sugli investimenti pubblici e solo dopo che il quadro sarà un po’ meno incerto potranno arrivare quelli privati a cui andrà ovviamente spianata la strada in termini fiscali e burocratici.

Dovrà dunque essere una strategia squisitamente industriale con ampie alleanze europee fra grandi imprese pubbliche e private, che faccia leva sulle immense economie di scala generabili e sul rilassamento, speriamo prolungato, delle disciplina degli aiuti di stato. Occorre infatti ricordare che ben prima delle tempistiche di abbattimento delle emissioni stabilite in sede Ue, e rese ancor più stringenti dal Pniec del Governo, arriverà l’ora X in cui il nostro rapporto deficit/Pil, salvo un’improbabile mutualizzazione del debito pregresso, sarà chiamato a dimostrare ai mercati la sua sostenibilità.

Da anni ormai si sente alzarsi la richiesta discelte drastiche e vere svolte ambientali con appelli ai Governi e alle istituzioni europee. Di seguito proverò a fare una fotografia dei diversi dossier industriali ed ambientali che il MISE stava affrontando.

Nel 2019 la portata della sfida della decarbonizzazione decisa dalle istituzioni europee - con vincoli alle emissioni e con stanziamenti finanziari irrisori - correva il rischio di essere persa già in partenza, soprattutto da un paese come l'Italia che ha addirittura scelto di restringere ulteriormente tempi e target di abbattimento delle emissioni, senza però mettere in campo né risorse né strumenti adeguati.

Non è un caso se a gennaio 2020 la Commissione Ue era già orientata a un allentamento del Regolamento sugli Aiuti di Stato per un accompagnamento alla decarbonizzazione di alcune grandi complessi industriali, come Ilva, che non potevano essere convertiti a regole di mercato vigenti, considerando anche il dumping ambientale dell’acciaio cinese peraltro ultra sussidiato. Ricordiamoci però che consentire maggiori gli aiuti di stato con spazi fiscali tanto diversi fra un paese e l’altro comporterà inevitabilmente squilibri notevoli che potranno essere colmati solo in minima parte dal Recovery Fund.

Uno dei principali dossier ambientali e industriali su cui era impegnato il governo italiano prima dell’esplosione delle pandemia era la decarbonizzazione delle centrali elettriche a carbone, ancora essenziali per fornire energia elettrica al nostro Paese, ma estremamente inquinanti. Nelle prime versioni del Pniec, l’Italia sarebbe stata il primo paese ad abbandonare il carbone, chiudendo le proprie centrali entro il 2025, ipotizzando una transizione diretta fra carbone e rinnovabili. Ciò, per quanto auspicabile in termini ambientali e climatici, avrebbe comportato la privazione dell’energia elettrica a intere regioni italiane. Il termine dello spegnimento delle centrali a carbone entro il 2025 è stata invece subordinata alla loro effettiva totale conversione a gas e comunque non potrà avvenire a potenziale elettrico negativo, cio 8Gw. Dunque il 2025 resta una data del tutto indicativa per le 8 centrali italiane mentre la Germania ha dichiarato di voler dismettere tutte le sue oltre 40 centrali a carbone nel 2038. 

A gennaio 2020 i piani di conversione delle diverse centrali elettriche a carbone erano quasi fermi al palo, sotto il fuoco incrociato dei veti paesaggistici, lentezze burocratiche e opposizioni bipartisan degli amministratori locali.

Richiederebbe molto tempo scendere nei dettagli delle criticità emerse per ogni stabilimento oltre che per l’intera Sardegna - unica regione italiana non ancora fornita di una rete di condutture per il metano!- tuttavia occorre tener presente che tendenzialmente una centrale a gas necessita del 10% della forza lavoro di una a carbone, senza considerare l’indotto della manutenzione e della logistica portuale e terrestre. Proprio in una logica di investimenti industriali pro-crescita, sarebbe importante che parte dei fondi per la ricostruzione siano investiti nello sviluppo e produzione di sistemi di accumulo e smart grid che possano nel medio periodo far diventare le Fer sostitutive e non più integrative del gas. Purtroppo attualmente, salvo un recente importante acquisizione, la capacità industriale italiana nel comparto delle Fer è piuttosto mediocre soprattutto se la si compara alla mole di sussidi presenti in bolletta che sono concausa dell’alto costo dell’energia.

Secondo grande dossier industriale sia italiano che europeo strettamente connesso alle politiche climatiche era ed è la complicatissima trasformazione dell’industria dell’automotive. Il dieselgate, il risiko globale delle fusioni e delle alleanza industriali, l’affermarsi del primato tecnologico asiatico nell’elettrico, l’imporsi del mercato cinese e il controllo cinese sulle terre rare, il radicale mutamento dei modelli di consumo di mobilità in Occidente, l’impennata di contenuti tecnologici presenti oggi nelle auto e la guerra dei dazi sono le principali variabili che facevano dell’industria dell’auto mondiale un rebus complicatissimo già prima dello scoppio della pandemia.

Solo colossi con spalle finanziarie larghissime sembrano in grado di sopravvivere, e nonostante una certa vulgata anti industriale, la produzione di autoveicoli resta un pilastro industriale insostituibile per ogni economia matura, soprattutto per quelle europee affamate di risorse per finanziarie le crescenti spese sociali derivanti dall’invecchiamento della popolazione. Il 2020 per le case automobilistiche europee è iniziato con l’incognita su come pagare le salatissime multe anti Co2 previste in Europa, che possono arrivare fino a 5mila euro per ogni auto venduta. L’Ue è corsa ai ripari così ogni auto venduta a zero emissioni (quindi escluse le ibride) viene conteggiata come sottrazione delle emissioni di ogni azienda produttrice. Tuttavia i costi ancora proibitivi delle auto elettriche, la scarsa diffusione dell’infrastruttura e ovviamente la crisi economica da coronavirus aggravano notevolmente il quadro.

La leggerezza con cui tutti i paesi europei hanno imposto questo spiazzamento tecnologico alla loro preziosissima industria dell’auto per inseguire la mobilità elettrica, senza avere “in casa” tecnologie, competenze e materie prime, genera però un effetto molto più grave sull’indotto. Se le grandi case europee che oggi sostanzialmente si limitano ad assemblare possono attutire il colpo che fine sarà delle decine di migliaia di pmi europee attive nella componentistica se un’auto elettrica contiene il 95% in meno di componenti? In uno scenario senza corona virus l'imposizione dell’elettrico avrebbe messo in pericolo circa il 60% dei posti di lavoro, cioè 1,8 milioni su 3 milioni di occupati in tutta l’Ue, che ricordiamolo verrebbero espulsi non per scarsa competitività delle imprese o per motivi di mercato, ma per scelta tecnologica imposta dalla politica.

La Commissione Europea nel confermare questi dati ha però previsto che gli investimenti green avrebbero assorbito questa occupazione espulsa dall’automotive, peccato che ad oggi sul piatto per tutto il mega dossier decarbonizzazione la Commissione abbia previsto solo 7,5 miliardi, senza prevedere alcun match di competenze fra l’industria che si va a dismettere e quella che si vorrebbe andare a creare. L’Italia deve sostanzialmente riorientare alla nuova mobilità elettrica, intelligente e interconnessa un apparato produttivo che cuba circa 90 miliardi di fatturato che a gennaio 2020 vedeva tutte le grandi aziende della componentistica in gravissimo affanno, comprese le grandi multinazionali tedesche presenti con molti stabilimenti nel nostro paese.

Una parziale risposta potrebbe arrivare dall’ampliamento degli attuali ambiti degli IPCEI, cioè progetti che coniugano ricerca e industria relativi ad alcune filiere ritenute strategiche, con iniezione diretta di liquidità dall’Ue alle imprese in totale deroga agli aiuti di stato. Probabilmente la trasformazione di questi progetti ad altissimo valore tecnologico, insieme all’allargamento del fondo deep tech, potrebbero rappresentare un asse di una nuova politica industriale europea.

Un’ulteriore importantissima partita tutta italiana è rappresentata dalla devastata industria edile nazionale, composta da un pulviscolo di microimprese, che se attivata genererebbe un impatto potentissimo sul PIL soprattutto del Meridione che storicamente ha colmato l’assenza di industria e terziario avanzato grazie a questo comparto. Inutile dire il potenziale in termini di abbattimento delle emissioni da una massiccia rottamazione dell’intero patrimonio edilizio abitativo o dalle riqualificazioni urbane incentrate sulla mobilità su ferro. Il settore dal 2008 ad oggi è letteralmente crollato, e poche sono le grandi imprese edili nazionali rimaste in piedi, tuttavia a differenze dell’industria delle FER, quello dell’efficienza energetica è più maturo e nel crollo dell’intera filiera edile si è dimostrato più resiliente.

A questi grandi capitoli sospesi di politica industriale e ambientale che il Governo stava trattando andrebbe anche aggiunta la saga dell’ILVA e della JSW Steel Italy di Piombino e le 18 aree di crisi industriale complessa sparpagliate lungo tutto lo stivale, molte delle quali con investimenti e Accordi di Programma impaludati nel bizantinismo del rapporto fra Stato e Regioni.

I Governi nazionali, ad eccezione di quello polacco, e le Istituzioni Europee sembrano fin sufficientemente sensibili e assertivi al tema ambientale e climatico, lo dimostra anche l’apertura alla carbon e border tax più volte fatta dalla Presidente Von der Leyen. Dunque oggi non servono nuovi solenni impegni, né nuove restrizioni o limitazioni: gli impegni presi sono assolutamente ambiziosi dal punto di vista ambientale, adesso è il momento di concentrarci sul renderli economicamente e industrialmente sostenibili. Insomma serve un’organica strategia industriale per l’Europa e una fase 3 italiana che sappia mettere a frutto le risorse aggiuntive che arriveranno.