Le fortissime differenze nella domanda di lavoro regolare fra Nord e Sud sono la prima causa del modesto tasso d’occupazione italiano: se fossero ridotte, la quota di occupati in Italia aumenterebbe di quasi 6 punti percentuali. La bassa produttività delle imprese meridionali, in presenza di un costo del lavoro non molto inferiore a quello del Nord, scoraggia gli investimenti e genera lavoro nero e grigio. Occorre ancorare le retribuzioni alla produttività e al costo della vita, introducendo il salario minimo e ridimensionando il ruolo dei contratti nazionali.

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La causa principale del basso tasso di occupazione dell’Italia (55,7% nel 2014), per esempio rispetto a un paese europeo molto simile al nostro come la Francia(1), ma con un tasso ben più elevato (63,8%), è costituita dalla modesta quota di popolazione occupata nelle regioni meridionali (41,8%). Infatti, il tasso di occupazione delle regioni più sviluppate dei due paesi è molto simile – il 66,3% in Emilia-Romagna e il 66,2% nell'Île-de-France – ma nelle regioni meno sviluppate le disparità sono elevatissime: in Sicilia meno del 40% della popolazione in età lavorativa è occupato (39%), mentre questa quota si avvicina al 60% in Corsica (58,3%).

Non sorprende che in Italia la dispersione regionale del tasso di occupazione(2) sia la più elevata tra i 28 paesi dell’Unione europea (19,4%), mentre il valore di questo indicatore, che misura l’ampiezza delle disparità, è nettamente inferiore in Germania (4%), nel Regno Unito (4,8%), in Francia (6,3%) e in Spagna (10,9%) (figura 1).

Se in Italia si registrasse la stessa bassa dispersione regionale del tasso di occupazione della Francia, il tasso italiano crescerebbe intorno al 61%(3) (2 milioni di occupati in più e 2 milioni di disoccupati in meno, a parità d’inattivi). Di conseguenza, la disparità tra Nord e Sud del Paese incide in modo negativo sul tasso d’occupazione dell’Italia, pesando per circa 6 punti percentuali.

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Le cause della continua e inarrestabile perdita di posti di lavoro nel Mezzogiorno – nel 2013 l’occupazione al Sud è scesa, per la prima volta, sotto i 6 milioni di unità, un livello così basso mai raggiunto negli ultimi 40 anni – sono in gran parte conosciute e ampiamente studiate.

La prima causa è la forte riduzione degli investimenti, determinata per una parte importante da fattori “ambientali” (illegalità e criminalità diffuse, pubblica amministrazione inefficiente, infrastrutture insufficienti ecc.) che si riflettono sulla bassa produttività del lavoro. Infatti, come si può osservare nel grafico successivo, se un lavoratore in Lombardia produce 60,8 mila euro di valore aggiunto, questo scende a 42,2 mila euro in Calabria (figura 2).

Perché un imprenditore dovrebbe investire nel Mezzogiorno, piuttosto che nel Nord, assumendo lavoratori con livelli di produttività inferiori anche del 30%?

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Il divario di produttività diventa un problema ulteriore per la propensione a investire, nel momento in cui il costo del lavoro non è proporzionato a questo indicatore: se il lavoro nel Mezzogiorno produce meno, dovrebbe costare meno. Ma non è così: il costo del lavoro al Sud è solo di poco inferiore a quello del Nord. Infatti, come si può osservare nel grafico successivo, in Italia il costo del lavoro medio nel Sud (38,9 mila euro l’anno) è pari all’82,3% di quello del Nord-Ovest (47,2 mila euro): in altre parole, in quest’ultima ripartizione, il costo di salari più imposte è superiore solamente del 17,7% (figura 3).

Negli altri paesi le differenze salariali fra regioni più e meno sviluppate sono molto più elevate: nel Länd dell’ex DDR di Mecklenburg-Vorpommern il costo del lavoro (36,9 mila euro) è pari solo al 62,1% di quello dell’Hessen (59,4 mila euro), il costo del lavoro nel Galles (39,9 mila euro) è pari solo al 63% di quello di Londra (63,3 mila euro).

È vero che sul costo del lavoro nel Sud incidono in misura maggiore imposte come l’Irpef e l’Irap che sono gravate da addizionali regionali più elevate, a causa dei piani di rientro dai deficit sanitari, ma anche le retribuzioni nette sono poco differenziate rispetto al resto dell’Europa: quelle medie nel Sud (24,2 mila euro l’anno) sono pari all’81,9% del Nord-Ovest (29,6 mila euro), mentre la remunerazione netta nel Länder di Mecklenburg-Vorpommern (24,6 mila euro) è pari solo al 63% di quella dei lavoratori dell’Hessen (39,1 mila euro).

Inoltre, se si considera il costo della vita, in particolare delle abitazioni, nel Nord è più elevato il salario nominale, nel Sud quello reale: il salario nominale di un cassiere di banca a Milano è superiore del 7,5% rispetto a Ragusa, ma il salario reale di chi abita a Milano è inferiore del 27,3% a quello di chi lavora a Ragusa. Per un professore, con salario nominale identico, la differenza sale al 32% a favore di chi insegna a Ragusa(4).

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Le conseguenze di queste rigidità salariali tra le regioni in Italia, determinate prevalentemente dalla contrattazione nazionale che impone lo stesso salario minimo in tutta Italia, completamente svincolato dai gap di produttività e dai costi così differenziati per i consumi di una famiglia, sono molteplici: alle imprese regolari non conviene investire nel Mezzogiorno (tranne le grandi aziende e le start-up innovative con maggior produttività), e quelle che lo fanno tagliano il costo del personale con il lavoro nero (il tasso d’irregolarità nel Mezzogiorno è pari al 20%, 9,2% nel Centro-Nord) e soprattutto con quello grigio (falsi part-time che lavorano a tempo pieno, retribuzioni effettive inferiori a quelle indicate in busta paga, mancato pagamento degli straordinari etc.).

Senza pensare di reintrodurre le gabbie salariali del 1945, le principali soluzioni a questo problema sono due: ridurre la componente fiscale del costo del lavoro con agevolazioni fiscali riservate al Mezzogiorno, oppure consentire che i contratti territoriali e aziendali adeguino le retribuzioni al livello della produttività e del costo della vita di ogni territorio.

La prima soluzione è stata praticata da tempo con molte agevolazioni fiscali, in particolare la decontribuzione totale degli oneri sociali assicurata dalla legge 407/1990, per fortuna abrogata nel 2015, senza alcun risultato positivo. Sarebbe preferibile, se ci fossero le risorse, un credito d’imposta per nuovi investimenti e ampliamenti nel Sud, come propone Confindustria.

La seconda ha maggiori vantaggi per tutti: un intervento sui minimi contrattuali che consenta un loro adeguamento alla produttività e al costo della vita, verso l’alto o verso il basso, nel secondo caso entro il limite del salario minimo previsto nella legge delega del Jobs Act, ma non istituito dai decreti attuativi. È una misura che probabilmente faciliterebbe l’emersione del lavoro nero, limiterebbe quello grigio, creerebbe le premesse per uno sviluppo del lavoro regolare nel Sud e soprattutto garantirebbe un’effettiva libertà di contrattazione in tutto il Paese, coerentemente con le sue diversità.

 

Note al testo:
(1) Popolazione 2014: Francia 65,8 milioni, Italia 60,8 milioni. PIL pro capite PPA 2013: Francia 28,5 mila euro, Italia 26,4 mila.
(2) Se il tasso di occupazione è uguale in tutte le regioni di un paese, il valore di questo indicatore è pari a zero. Aumenta con il crescere delle disparità.
(3) Il valore è stato ottenuto simulando un incremento dei tassi occupazionali delle sole regioni del Mezzogiorno, tenendo invece invariati quelli registrati per il Centro e il Nord.
(4) Cfr. Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti, Housing prices, wage and income differentials in Italy, presentazione alla XVI Conferenza Europea della Fondazione Rodolfo Debenedetti, 2014.