Cosa vuole l’Italia dalla Cina?
Innovazione e mercato
È di questi giorni la notizia della visita del Ministro degli Esteri, Di Maio, alla China International Import Expo, il più importante appuntamento annuale per chi vuole esporre prodotti da vendere in Cina, anche se nell’era di internet e delle vendite online che in Cina spopolano, una fiera ha forse meno rilevanza.
Comunque, accompagnato da una folta delegazione di aziende, Di Maio ha detto che Cina e Italia non sono mai stati così tanto amici e che non bisogna interferire negli affari interni del paese. Detto-fatto. È di pochi giorni fa la notizia di una dichiarazione di condanna all’interno di un Comitato dell’ONU della repressione che sta avvenendo in Xinjiang contro la minoranza musulmana uigura. Condanna che lascerà il tempo che trova e non farà cambiare idea alla Cina che vede gli uiguri come la Turchia vede i propri curdi, ma che è stata firmata da molti paesi europei, inclusi Francia, Germania, Regno Unito e Olanda. Non l’Italia.
Ma non basta: all’inizio di quest’anno quando il Consiglio Ue ha adottato un regolamento per monitorare meglio a livello europeo le acquisizioni di aziende strategiche da parte di società extra-europee, un regolamento diretto soprattutto alle preoccupazioni successive all’ondata di acquisizioni da parte di aziende cinesi e dei paesi del Golfo, l’Italia si è astenuta.
D’altra parte, è stato Conte a presenziare nel marzo di quest’anno alla firma del famoso Memorandum of Understanding sulle Nuove Vie della Seta, primo ed unico (finora) paese del G-7 a firmarlo. Un Memorandum che contiene impegni molto generici, ma che ha dato un segnale politico ben preciso, criticato anche da Bruxelles che invece stava cercando un approccio unitario a fronte dei “ribelli” di Visegrad.
C’è una totale continuità nella politica estera italiana verso la Cina tra Conte I (che ricordiamo includeva anche la Lega: il sottosegretario al MISE che tanto ha voluto il Memorandum era in quota Lega) e Conte II, visto che ora il Ministero Esteri è in mano ai 5 Stelle. E può essere sintetizzata come segue:
- Vogliamo fare affari ed esportare più i nostri prodotti nel paese. Legittimo. Tutti lo vogliono. Qualunque amministratore delegato pensi di ignorare un mercato di 1,4 miliardi di persone con una classe media in crescita verrebbe sostituito alla prima occasione.
- Vogliamo anche investimenti dalla Cina, possibilmente però “greenfield” cioè non vogliamo che aziende cinesi comprino i nostri gioielli, ma vogliamo che investano in fabbriche o attività nuove. Magari anche investimenti in infrastrutture: ponti, porti, dighe.
- Vogliamo che alle nostre aziende sia dato un ruolo fondamentale nelle lucrose commesse in Medio Oriente e Africa per progetti infrastrutturali delle grandi aziende di Stato cinesi.
Posto che tutti gli obiettivi sono condivisibili e vanno perseguiti, veniamo al come:
- È necessario dichiararsi “amici a tutti i costi” del paese per esportare? Non sembra. Germania, Francia e Regno Unito esportano molto più di noi (nel 2017 la Germania ha esportato più in Cina che in USA, per dire, e Macron è appena tornato con ordini per 15 miliardi soprattutto di aerei Airbus – un’azienda comunque europea alla quale per qualche mistero l’Italia decise di non partecipare). Ma Francia e Germania allo stesso tempo votano risoluzioni di condanna su questioni “interne” della Cina quando lo ritengono giusto e non hanno firmato alcun Memorandum sulle Vie della Seta. Come si spiega?
- È necessario distanziarsi dalla linea generale di politica commerciale europea verso la Cina e cercare accordi “preferenziali” per vendere di più? Nemmeno. Durante gli stessi giorni della visita di Di Maio l’Unione Europea, forte della sua forza negoziale oltre che della sua competenza esclusiva in materia concludeva un accordo che riconosce un centinaio di “indicazioni geografiche” per prodotti europei i quali quindi non potranno essere oggetto di imitazione in Cina. Di questi una ventina sono italiani. Una forte concessione alla quale la Cina si era sempre opposta in passato.
- È necessario dichiararsi “parte integrante” del progetto delle Nuove Vie della Seta per accogliere più investimenti cinesi in nuove attività produttive? No. Basterebbe (a) smetterla di parlare di uscita dall’Euro (b) tagliare il cuneo fiscale (c) rendere più semplici i permessi di inizio attività produttive (d) velocizzare i tempi della giustizia e (e) non far scappare le multinazionali cambiando i patti dopo che hanno investito. L’impatto devastante della gestione Ilva sull’opinione che si faranno investitori stranieri del Paese si sentirà anche a Pechino, stiamone certi.
- E infine, se proprio vogliamo che i cinesi investano pesantemente per esempio in un porto italiano, dobbiamo venderglielo, come hanno fatto i greci. Siamo pronti? Non mi sembra, a quanto sento in ambienti governativi. E, tra parentesi, sarebbe meglio farlo solo dopo che diventerà possibile legalmente per un’ azienda italiana prendere controllo di un porto cinese: si chiama reciprocità. L’Europa guarda caso si sta battendo per questa da 10 anni, cercando di aprire anche il settore degli appalti pubblici cinesi che vale 1 trilione di dollari ed è di fatto chiuso.
Ma allora, perché abbiamo firmato questo Memorandum? Io una risposta me la sono data: per fare uno sgarbo all’Unione Europea, che poi è quella che negozia anche per la protezione dei nostri prodotti e per la reciprocità. E, visto che ci siamo, lo abbiamo fatto anche agli USA tanto per ribadire la nostra supposta “indipendenza”. Il gioco finora è valso la candela?
Questo articolo è stato pubblicato su Blitz quotidiano.