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«Volete voi che il gestore unico del servizio idrico integrato per il territorio provinciale di Brescia rimanga interamente in mano pubblica, senza mai concedere la possibilità di partecipazione da parte di soggetti privati?» È questo il quesito su cui, il prossimo 18 novembre, i bresciani saranno chiamati ad esprimere il proprio voto in ordine alle modalità di gestione del servizio idrico integrato (SII) della provincia.

Il referendum consultivo, promosso dal Comitato Referendario Acqua Pubblica Brescia con l’appoggio di 55 comuni (su 205), mira a ribaltare la delibera con cui la Provincia – quale Ente responsabile dell’Ambito Territoriale Ottimale di Brescia – ha optato per l’affidamento del SII a una società di capitali mista. Tale obiettivo verrebbe raggiunto in due fasi: (i) affidamento trentennale in house ad Acque Bresciane s.r.l. (società a totale partecipazione pubblica, costituita da quelle già operanti nel territorio provinciale) e; (ii) la selezione, tramite gara europea da tenersi entro fine 2018, di un socio privato al quale attribuire una partecipazione societaria compresa tra il 40% e il 49%.

La scelta, come indicato nella citata delibera, viene motivata sulla base di alcune – condivisibili – considerazioni. Anzitutto si persegue la massima integrazione dei gestori pubblici esistenti acquisendo al contempo la professionalità (e i capitali) di un socio privato, necessari per realizzare gli investimenti finalizzati, in particolare, al superamento delle criticità che costituiscono infrazioni alle norme europee, e stimati dell’ATO in oltre 300 milioni di Euro. In secondo luogo, l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica su base europea permetterebbe di fruire di vantaggi concorrenziali non altrimenti ottenibili.

Tali aspetti, certamente evidenti a un’analisi razionale, non vengono tuttavia condivisi dai promotori della prossima consultazione che - al grido di “l’acqua deve rimanere pubblica” e “l’acqua non si vende” - portano avanti con fiero convincimento l’ideologica e immotivata aggressione ai privati iniziata con i referendum abrogativi del 2011.

Peraltro, la natura pubblica (in senso giuridico) del "bene acqua" non è mai stata messa in dubbio; quello di cui si discute, ora come allora, è la gestione di un servizio pubblico locale di rilevanza economica che, come tutti i servizi pubblici economici - in cui il benessere della comunità viene raggiunto attraverso forme e modalità tipiche della gestione imprenditoriale – dovrebbe essere affidato in concessione attraverso una gara, individuando il fornitore più efficiente nell’interesse di tutti.

Ciò che deve – questo sì – rimanere pubblico sono la pianificazione e il controllo. E oggi è già così: il piano pluriennale degli investimenti del gestore è definito dagli ATO ( che svolgono anche funzioni di controllo sull’effettivo svolgimento del servizio), i controlli sulla qualità dell’acqua sono demandati alle ASL territorialmente competenti, mentre le modalità di calcolo delle tariffe sono determinate dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) sulla base del piano di investimenti di cui sopra.

L’obiettivo comune, pertanto, dovrebbe essere quello di migliorare le modalità pubbliche con cui oggi avvengono le fasi di pianificazione e controllo, che stanno invece passando in secondo piano rispetto alla sterile e inutile polemica – tutta italiana – concentrata da anni (per totale disinformazione) sulla forma societaria del gestore.

Il punto, dunque, non è decidere chi sia più bello/bravo/buono tra gestore pubblico e privato; è sbagliato a prescindere affidare servizi di rilevanza economica in assenza di procedure di evidenza pubblica a livello europeo. Ed è sbagliato a prescindere il voler escludere a priori – per ragioni meramente ideologiche - dei player che potrebbero svolgere un ottimo lavoro, sulla sola base di una partecipazione privata nella compagine sociale.

E l’ideologia qui trasuda da ogni lettera del quesito, a partire da quel “mai”.