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Nel suo ottimo libro 'Thank you for being late', il noto giornalista americano Thomas Friedman spiega con dovizia di particolari le trasformazioni subite dal mondo negli ultimi 10-15 anni, dal punto di vista tecnologico, economico e politico. E dimostra anche che la capacità del cittadino medio di adattarsi ai cambiamenti è molto più lenta rispetto alla velocità con cui questi avvengono.

Lasciare quindi il cittadino “in balia” degli stessi dicendogli che semplicemente si deve adattare, o ignorare quella parte della popolazione che - per motivi diversi - non riesce ad adattarsi, porta a reazioni inattese, come l’elezione di Trump, la Brexit, ma anche l’enorme astensionismo elettorale che ormai si conosce in Occidente e la rinascita di estremismi di sinistra o di destra.

Friedman propone alcune soluzioni per rendere meno ardua la vita di quel crescente numero di persone che non riesce ad adattarsi (per colpe sue o per fattori oggettivi) e mette in guardia anche dal cambiamento più grande che dovremo ancora fronteggiare: quello del clima, che avrà effetti importanti sulle migrazioni dal Sud al Nord del mondo. Sebbene Friedman parli soprattutto degli USA, il discorso si può adattare benissimo all’Italia e agli shock che la nostra popolazione ha subito.

Pensate ai cittadini italiani. Negli ultimi 10 anni si è chiesto loro di:
(a) digerire tutte le imperfezioni dell’eurozona (perché comunque – ed è vero – l’Italia starebbe peggio fuori dall’Euro);
(b) accettare che in Italia circolassero e lavorassero liberamente centinaia di migliaia di cittadini dai nuovi Paesi membri della UE, e che molte nostre fabbriche si trasferissero in quei Paesi (perché – ed è giusto – gli stati che venivano fuori dal dominio sovietico andavano integrati in Europa);
(c) accettare la forte liberalizzazione dei commerci internazionali avutasi specie dal 2001 in poi con l’entrata della Cina nel WTO e successivi sviluppi, con tutti gli effetti che questo ha avuto sulla chiusura di attività non più competitive (perché – ed è vero - anche i nostri esportatori sono favoriti da questa liberalizzazione e i consumatori hanno avuto accesso a prodotti più vari e meno costosi);
(d) adattarsi all’economia digitale e all’avanzamento tecnologico che hanno trasformato alcune professioni, con la necessità di aggiornarsi continuamente, perché comunque non si può fermare il progresso;
(e) abituarsi ad un rapporto di lavoro più flessibile (vedi Jobs Act) con la fine definitiva del "posto di lavoro a vita", perché con l’aumentare della concorrenza internazionale si deve garantire la dovuta flessibilità alle aziende e, infine
(f) sperimentare arrivi interminabili dall’Africa e dal Medio Oriente che a volte si dileguano nei nostri campi come braccianti, ma più spesso finiscono per occupare zone delle città che sono, putacaso, proprio quelle colpite da un abbassamento del tenore di vita.

E non basta. Adesso c’è anche qualcuno che propone di privatizzare il sistema sanitario, privatizzare il sistema pensionistico, licenziare centinaia di migliaia di dipendenti pubblici.

Per chi non siede in una torre d’avorio a pontificare sulla vita degli altri, queste sono tutte sberle in pieno viso che – anche se magari necessarie o inevitabili – lasciano o lascerebbero il segno. Cosa ci insegna Friedman? Che il senso di insicurezza ed incertezza che molti provano è risultato diretto dello spread tra velocità di cambiamento e di adattamento. Non è, quindi, umanamente possibile pretendere che la popolazione accetti di buon grado o si adatti a tutti i cambiamenti dei nostri tempi quando essi avvengono così repentinamente, e soprattutto simultaneamente e in maniera spesso ingovernabile.

Tutti, nel lungo termine, finiranno per adattarsi a questi fenomeni. Ma il problema è proprio questo: nel lungo termine. E in democrazia il lungo termine non esiste, dura al massimo 5 anni, anche meno a volte, specie in Italia. Nei regimi non democratici, i progressisti hanno il vantaggio di poter fare esperimenti e di imporre cambiamenti repentini, stando solo ben attenti a non oltrepassare il segno che porta alla rivolta armata - unico meccanismo per liberarsi degli autocrati - e quindi al disastro. Se ci riescono avranno enorme successo.

Ma non in democrazia. In democrazia, i progressisti devono scegliersi le battaglie. Non si possono combattere tutte, né tutte allo stesso tempo. E quindi, se si decide che il rafforzamento dell’Unione Europea sia la battaglia principale in cui impegnarsi, non si può ignorare il fatto che la gestione dei flussi migratori dai Paesi in via di sviluppo è l’argomento sul quale una rottura degli equilibri attuali tra Paesi UE è più probabile. In Olanda sta impedendo la formazione di un governo, nell’UE sta avvelenando i rapporti con i Paesi dell’Est e in Francia è solo sopito per il momento nell’euforia macroniana, ma resta molto attuale (respingimenti a Ventimiglia docent).

Senza una gestione rigorosa dei confini esterni della UE, indipendentemente da chi la fa, non si potrà andare avanti nel processo di integrazione, perché, da che mondo è mondo, uno stato o una federazione di stati si definiscono anche per i propri confini esterni e non solo per “un sistema di valori".

E ancora, se si vuol consentire alle aziende di licenziare con più facilità o procedere a massicce riduzioni di personale pubblico per adattarsi ai tempi, vanno prima individuati i settori che potrebbero assorbire chi si trova senza lavoro. E, se questi settori sono già esposti a forte concorrenza dall’estero, va valutato se questo o quel trattato di libero scambio in corso di negoziazione possa avere effetto peggiorativo della situazione – anche se solo nel breve termine (il lungo, appunto in democrazia conta poco) – e, qualora questo sia il caso, rimandarne la conclusione a tempi più propizi. Ovvero, se si ritiene che i benefici del trattato nel medio-lungo termine siano più importanti degli effetti negativi sull’occupazione nel breve, posticipare riforme che inciderebbero ancora di più sul tasso di disoccupazione.

Scegliere le battaglie, combattere quelle più importanti e poi passare ad altre quando il Paese si è adattato ai cambiamenti precedenti. Questa è l’unica strada possibile per i progressisti. Penso che Macron l’abbia capito. Chi, invece, risponde ideologicamente che “no, bisogna farle tutte insieme se no non si è veri progressisti” ricorda quel bambino che fa i capricci per avere tutti i giocattoli nel negozio e finisce in punizione da solo nella sua cameretta, a giocare con quelli vecchi.