Carlo Calenda

Avete presente quando si dice che servono misure per la crescita economica, per l'innovazione e per gli investimenti? Ecco, il DDL Concorrenza è (ed era ancora di più nella sua versione originaria del 2015) uno di quei provvedimenti che concretamente sono capaci di espandere il potenziale dell'economia italiana. Se fosse stato approvato in tempi fisiologici, in 6 mesi o un anno, avrebbe già esplicato i suoi effetti positivi nei vari comparti in cui interviene.

Nel settore delle farmacie avremmo finalmente aperto il mercato delle società di capitali, una opportunità di attrazione di investimenti importante. Nel mercato energetico, avremmo già liberalizzato l'offerta a vantaggio dei consumatori. Avremmo già permesso a chi contrae un mutuo in banca di poter stipulare la polizza assicurativa con un'altra compagnia, dunque favorendo la competizione al ribasso. Poste Italiane non avrebbe già più il monopolio della spedizione degli atti giudiziari, con la conseguente apertura di un importante business per i servizi postali privati e un risparmio di danaro del contribuente. Nell'ambito delle telecomunicazioni, avremmo già semplificato la vita all'utente che vuol recedere da un abbonamento (oggi è obbligatoria la raccomandata, quando sarà approvato il DDL si potrà fare anche online). Avremmo ampliato il raggio d'azione del singolo notaio, non più il distretto del tribunale ma l'intera regione di residenza, stimolando anche qui un minimo di concorrenza.

Nella versione originaria del disegno di legge c'era molto di più, come la liberalizzazione dei farmaci di fascia C (la prima misura a cadere), la portabilità dei fondi pensione o l'eliminazione dell'obbligo di atto notarile per le compravendite sotto i 100.000 euro, ma il fuoco incrociato dei gruppi d'interesse e delle parti politiche più sensibili a difendere questa o quella rendita di posizione le ha fatte cadere una ad una. Oggi c'è chi lamenta che il provvedimento è in fondo meno coraggioso del necessario e che dunque Carlo Calenda stia esagerando ad alzare i toni contro chi sta costringendo il DDL all'ennesimo passaggio parlamentare.

In realtà, a ogni passaggio si è perso un pezzo e quello che doveva essere il provvedimento annuale del 2015 sta diventando un travagliato parto triennale, se mai vedrà la nascita. Già, perché la sicurezza di certi ambienti Pd rispetto a una rapida approvazione in Senato si scontra con la vischiosità dell'iter parlamentare e con i mille rischi di una legislatura ormai al termine. Speriamo che il rinvio al Senato non sia un modo per rimandare sine die: preferiamo l'approccio Calenda alle calende greche.

Più che il destino di un singolo provvedimento, preoccupa la scarsa cultura della concorrenza e dell'innovazione nella politica italiana. Certi afflati "pro liberalizzazioni" (le famigerate lenzuolate di Bersani) hanno lasciato il posto a una reticenza pelosa, a un "sì, ma" che finisce per essere il miglior alleato dello status quo.

Uno sarebbe portato a credere che, in tempi di vacche magrissime come questi in cui viviamo, l'assenza di margini per una politica di espansione di spesa pubblica o di robusta riduzione fiscale inducesse il decisore pubblico a favorire quelle che chiamavamo "riforme a costo zero", quali appunto le liberalizzazioni. In realtà, proprio la mancanza della leva della spesa - tipico strumento di acquisizione del consenso nella politica italiana - induce spesso la politica a cercare di catturare pezzi di opinione pubblica o gruppi di potere organizzati difendendone gli interessi particolari. Anche i tassisti e i farmacisti votano, no? Peccato che, a furia di ragionare così, si finisca per amministrare l'esistente, spesso a spese del consumatore, cioè di tutti noi.