lavori socialmente utili

C'è una grande e sostanziale differenza tra l'offrire un sussidio di disoccupazione in cambio della disponibilità ad accettare un lavoro, e di partecipare a programmi di riqualificazione professionale, e offrire un sussidio in cambio di lavori di pubblica utilità. Nel secondo caso sparirà ogni convenienza a contrattualizzare chi fa quei lavori: il decoro e il verde urbano, la piccola manutenzione degli edifici, l'assistenza agli anziani (per citare gli esempi che vengono sempre fatti) diventeranno luoghi dove non c'è più occupazione ma solo volontariato forzoso e sottopagato. Chi assumerà più un giardiniere, o un fattorino, o una donna delle pulizie quando può averli senza costi e senza contributi? E chi resisterà alla tentazione di cacciar via un elettricista o un infermiere quando può sostituirli con un disoccupato a sussidio?

La proposta sul “lavoro di cittadinanza” non è ancora molto precisa. Ma se è vero quel che se ne scrive appare come la chiusura di un cerchio disperato. In principio la pulitrice Maria aveva un lavoro: con busta paga, ferie, maternità, pensione e tempo indeterminato. Poi ebbe un co.co.co, contratto a progetto, e faceva sempre le stesse cose ma con lunghe interruzioni e senza busta paga, ferie, maternità. Poi l'ente che la impiegava smise di gestire le pulizie, e la affidò a una cooperativa o a un'agenzia interinale, e il co.co.co della signora Maria diventò ancora più aleatorio. Poi la partita IVA: professionista delle pulizie, formalmente “autonoma”. Oltre alla continuità del lavoro, scomparve anche quella di orario e collocazione: potevano spostarla qui e lì (con trasporti a carico suo). Da lì ai voucher: svanita anche la prospettiva di pensione. E ora dai voucher al sussidio, dove insieme al resto si volatilizza l'idea stessa di lavoro retribuito, sostituita da altro: ti faccio campare, e ogni tanto ti chiamo per dare una mano.

Chi assumerà più con un contratto “vero” la signora Maria – anzi: l'esercito delle signore Marie - per pulire una scuola, un ufficio, rispondere al telefono, sorvegliare i bambini che giocano? Nessuno. E che tipo di consumatore, di cittadino, sarà la signora Maria, appesa a un sussidio che non diventerà mai un lavoro vero?

Non stupisce che Matteo Renzi abbia abbozzato l'idea al ritorno di un viaggio in California, frontiera del mondo nuovo dell'occupazione cabriolet. I pionieri della Silicon Valley da tempo hanno maturato una visione del mondo del lavoro fatta così: pochi lavori molto ben retribuiti per chi ha doti naturali, formazione, capacità di alto livello, e per gli altri una sussistenza al minimo che eviti il precipizio nella rivolta delle plebi.

Da loro non è andata benissimo. L'elezione di Donald Trump è la migliore conferma del fatto che magari le plebi non assaltano coi picconi il Palazzo d'Inverno o la Bastiglia, ma una soluzione di protesta la trovano comunque. E sono soluzioni che si pagano piuttosto care.

Da noi, che siamo sul bordo dello stesso precipizio, forse sarebbe opportuno ricominciare a ragionare con la nostra testa, e anziché guardare all'oltreoceano studiare esperienze più vicine ed efficaci. La Germania, per esempio, dove la disoccupazione quasi non esiste, e l'economia va bene, e il massimo della “rivoluzione” per l'elettorato è passare da Angela Merkel a Martin Schultz. Centri per l'impiego efficienti, un interinale meno truffaldino, un'imprenditoria meno predatoria e più consapevole delle sue responsabilità anche sociali.

A latere, non sarebbe male anche una riflessione sull'equivalenza tra flessibilità e sviluppo, che ha guidato le scelte politiche per un ventennio vigorosamente sostenuta dalle accademie, dagli economisti, dall'industria, con il feticcio dell'articolo 18 che sembrava essere la madre di tutti i guai del nostro mercato del lavoro: non era vero, i guai erano in gran parte altri, e ragionare sopra “il resto” non sarebbe sbagliato.