dimaio bolkestein

Quante volte ce lo siamo detto? Roma è una città paralizzata. Paralizzata nella mobilità, nell’urbanistica, nelle iniziative culturali, nell’innovazione tecnologica: ma perfino, ed è un perfino che dice tutto, nelle attività minute come il commercio ambulante.

Avete mai visto quei bei documentari su Londra, Berlino, Parigi, sui ragazzi che escono dall’istituto alberghiero e mettono su con quattro soldi il camioncino dello street food che ha successo, finisce nelle guide, diventa famoso e dopo un paio d’anni consente loro di aprire un ristorante? Ecco, a Roma roba del genere fareste meglio a dimenticarla. La difesa a oltranza delle rendite di posizione, degli interessi consolidati e dell’immancabile rete clientelare che ci si attacca sopra si estende anche ai camion bar, alle bancarelle, alla vendita dei souvenir. Una melassa densa e appiccicosa che stronca sul nascere qualsiasi progetto nuovo, per quanto piccolo, qualsiasi possibilità che soggetti diversi da quelli ormai conosciuti da decenni possano affacciarsi al mercato.

Già, il mercato. Il demonio su cui si appuntano gli esorcismi trasversali di destra e sinistra, l’icona della prevaricazione del forte sul debole, del ricco sul povero, del potente sul cittadino qualunque: lo stesso mercato che invece consentirebbe a giovani e stranieri di inserirsi nel tessuto produttivo della città, di giocarsi le loro possibilità con qualche speranza di successo, di provare a entrare in un campo da gioco che è stato attrezzato a tutti gli effetti come un fortino impenetrabile.

Lo stesso mercato che porta con sé quell’altra parola, anch’essa vituperata, evitata come la peste e bandita da tutti i vocabolari dei sedicenti difensori delle masse che risponde al nome di concorrenza, grazie alla quale i prezzi si abbasserebbero e la qualità aumenterebbe, a tutto beneficio dei cittadini specialmente in un periodo di crisi.

Invece no. Roma, bloccata nel traffico e inchiodata al suo panorama immobile e stagnante, deve evidentemente restare ferma anche nelle piccole attività commerciali: guai a immaginare un cambiamento, foss’anche nel ripieno dei panini, guai a pestare i piedi ai piccoli e ostinati poteri consolidati, che tutti insieme compongono numeri che poi diventano preferenze, voti. L’hanno capito subito anche gli amici del Movimento 5 Stelle, quelli che in campagna elettorale dicevano di voler cambiare tutto e che adesso si impegnano meticolosamente a non spostare neppure le virgole, sensibili al consenso quanto e più della “vecchia politica” che denunciano.

Il bello (o il brutto, fate un po’ voi) è che questa resistenza a corpo morto contro il cambiamento, questa smania di conservazione che pervade quasi tutti gli schieramenti politici, da destra a sinistra, viene presentata come solerte attenzione ai problemi della città, sensibile vicinanza ai deboli, appassionata solidarietà con chi viene colpito dalla crisi, mentre finisce per produrre l’effetto diametralmente opposto: quello di affondare la capitale, con tutti quelli che ci abitano, nella palude del suo immobilismo.

A quanto pare nemmeno l’Europa, con la direttiva Bolkestein, è in grado di smuovere questo ostinato ancorarsi al proprio tornaconto e alle logiche del passato: come al solito si proroga, si rimanda, si producono eccezioni a raffica affinché nulla possa cambiare, magari accompagnando il tutto con qualche sapiente spruzzatina di retorica solidaristica sparpagliata qua e là.

Roma è paralizzata, immobile. Perché evidentemente a molti, a troppi, conviene così.


(Alessandro Capriccioli è segretario di Radicali Roma)