La vicenda della mancata "privatizzazione" dell'azienda genovese di trasporto pubblico locale racconta molto dello zeitgeist italiano, ed anche di quello che ci aspetta mentre ci ostiniamo ad inseguire ombre ed a cercare soluzioni semplici ed ingannevoli in un mondo sempre più complesso, vincolato e vincolante.

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La vicenda della AMT genovese non differisce in modo significativo da quelle di molte altre aziende di trasporto pubblico locale italiano. Sono aziende che molto spesso mancano del requisito che tiene in vita le aziende, in un contesto di mercato: l'economicità. Hanno conti in profondo rosso anche al netto della loro funzione "sociale", spesso del tutto malintesa, che quindi richiede l'intervento pubblico sotto forma di sussidio.

Le ampie evidenze, domestiche ed internazionali, di cui disponiamo sulla gestione del trasporto pubblico locale ci spiegano che l'antieconomicità estrema di queste realtà è frutto della degenerazione della loro missione "sociale": bassa produttività del lavoro e ricavi insufficienti rispetto ai costi di produzione, a loro volta resi elevati dalla scarsa produttività. Oltre alla frammentazione delle politiche tariffarie, conseguenza di un "campanilismo" grottesco che spesso è la copertura attraverso la quale i politici estraggono risorse dalle municipalizzate. In sintesi, le municipalizzate sono piagate da obiettivi extra istituzionali.

E qui iniziano i "malintesi" e le dispute ideologiche. Il caso della municipalizzata genovese è eclatante perché ha prodotto una reazione al limite dell'insurrezione da parte dei dipendenti, con reiterate e protratte violazioni di legge culminate nel blocco di una città. Oltre a ciò, questo episodio ha visto una interessante convergenza di manifesti ideologici. C'è stata la reazione dei sostenitori del concetto di "bene comune", che è ormai divenuta l'ideologia neo-collettivistica più alla moda nel paese. A questa corrente si sono affiancati quanti ritengono che causa di questi fallimenti economici sia l'austerità a cui il nostro paese è sottoposto ormai da anni, senza che si veda l'uscita dal tunnel. A queste tesi si contrappongono quanti insistono a vedere in non meglio precisate "privatizzazioni" la soluzione ai mali italiani.

La realtà, come sempre più spesso capita in Italia, sta altrove. Brandire la spada del "bene comune" ignorandone ricadute e compatibilità economiche significa puntare ad un mondo in cui non esistono vincoli, sostituiti da incentivi perversi e disfunzionali, in cui alla fine deficit e debito pubblico portano ad esiti rovinosi. Le municipalizzate, in Italia, sono alla confluenza del "patto sociale" scellerato che ha fatto di questo paese un modello negativo su scala planetaria: la bassa produttività si lega ad organici sovradimensionati ed al ruolo di ammortizzatore sociale improprio che le strutture pubbliche da sempre esercitano in questo paese. Al contempo, la politica svolge un ruolo predatorio delle risorse pubbliche attraverso la propria intermediazione parassitaria. Invocare la definizione di "bene comune" per tutelare lo status quo è puro autolesionismo. Ma la fascinazione linguistica di agire contro un non meglio specificato "liberismo" è altissima, e riesce a fare leva sulle suggestioni popolari, soprattutto in un momento difficile come questo. Alla fine, il verbo privatizzare finisce con l'avere una inquietante radice etimologica comune col verbo privare.

Allo stesso modo, è altrettanto difficile fare il tifo per il cosiddetto "privato" italiano, che sinora si è rivelato anche peggiore del pubblico, col quale spesso agisce di concerto predatorio, col risultato finale di un danno che colpisce i cittadini su più dimensioni, ad esempio come contribuenti e consumatori. Alla "chiesa dei beni comuni" è federata anche quella dei soggetti che potremmo definire ostili a "vincoli esterni". Sono quanti affermano che la crisi è causata dall'impossibilità di spendere liberamente per far quadrare -artificiosamente- i conti. Sono quelli che vorrebbero avere una banca centrale "che stampi" felicità, oltre che denaro , per risolvere tutti i problemi e liberarsi del vincolo di bilancio. Vincolo che tuttavia, essendo parte del più generale vincolo di realtà, resta e ci perseguita, con o senza una moneta che al momento è il perfetto capro espiatorio da caricare di colpe: quelle che ha ma anche -e soprattutto- quelle che non ha.

E del resto, non si dovrebbe ignorare quello che storia e cronaca ci offrono: esistono paesi che hanno usato la propria sovranità monetaria per distruggere la propria economia, pur essendo stati benedetti (o più probabilmente maledetti) da una ricca disponibilità di materie prime. Oggi abbiamo sotto gli occhi il caso di Argentina e Venezuela, che dovrebbero essere paesi ricchi ed invece vivono in una sorta di incubo monetario ed economico per aver ignorato vincoli e compatibilità, ed aver fatto di populismo e mistica dei "beni comuni" la propria religione.

Il rischio è di arrivare ad una conclusione sconsolante: che alcuni popoli sono antropologicamente incapaci di gestirsi, ed attraversano la storia lamentando incessanti complotti esterni ai loro danni, restando prigionieri di quella psicologia infantile che è il vero cavallo di Troia per farsi rubare il futuro e vivere schiavi: di ideologie e uomini della Provvidenza. Noi italiani in fondo siamo pur sempre il paese di Collodi, sempre alla mercé di qualcuno che ci invita a seppellire gli zecchini nell'Orto dei Miracoli, per farli moltiplicare. Ma se la lettura antropologica delle nostre vicende ha un qualche fondamento, il nostro futuro appare particolarmente cupo.