Ideologia femminista e paternalismo maschile, gli alleati che non ti aspetti. Così la “questione maschile” resta un territorio inesplorato dall’analisi politica; di più, la sensazione è che si tratti di un argomento intoccabile per chiunque intenda fare politica “sul serio”.

Nei fatti, dietro all’apparente neutralità del termine “pari opportunità”, si nasconde una visione unilaterale ed escludente dei temi di genere che troppe volte si riconduce a un mero sindacalismo femminile. Non è solo sudditanza al politically correct; c’è anche quello naturalmente, ma da solo non basterebbe a giustificare l’unanimismo e il trasversalismo che si riscontrano sulla maggior parte delle “soluzioni” invocate dalla “lobby rosa”. Probabilmente questa assenza di contraddittorio si spiega con il fatto che, nello specifico della questione di genere, entrano in gioco fattori inibitori profondi, in qualche modo legati all’atavico dovere maschile di proteggere le donne. Si crea così, all’atto pratico, una sostanziale convergenza tra ideologia femminista e paternalismo maschile verso esiti politici che istituiscono nella legge o nella prassi speciali tutele a favore del sesso femminile.

Rispetto ad altri ambiti dove se ne percepisce l’obsolescenza, sui “temi di genere” resiste una lettura paramarxista dei rapporti sociali in termini di contrapposizione di classe. Gli uomini sono visti come la classe dominante e le donne come la classe subalterna e si ritiene, pertanto, che una condizione di “giustizia” possa essere conseguita solo attraverso l’intervento dello Stato per forzare un riequilibrio di potere politico, economico e sociale.  In realtà questa lettura dei rapporti tra i generi come oppressione di un sesso sull’altro appare molto artificiosa; obiettivamente è più ragionevole pensare che uomini e donne abbiano contribuito a sviluppare e a consolidare i ruoli sessuali tradizionali – entrambi al di là di tutto con vantaggi e svantaggi – semplicemente perché probabilmente per lungo tempo essi erano gli unici compatibili con la sopravvivenza della specie.

La verità è che il game changer nel rapporto tra uomini e donne – quello che poi ha dato il la a tutte le speculazioni teoriche successive – è stato il progresso tecnologico che nell’ultimo secolo e mezzo ha reso la produttività umana sempre meno dipendente dalla forza fisica e di conseguenza ha aperto la strada a una modifica sostanziale di equilibri che erano rimasti stabili nei secoli. È in questo contesto che si inseriscono la straordinaria evoluzione della condizione femminile, ma necessariamente anche molte importanti trasformazioni che riguardano gli uomini e il concetto di maschilità. Limitare l’analisi sociologica e politica alla questione dell’avanzamento delle donne è un approccio parziale che non fornisce una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso.

Certo, non si può negare che le donne, nella società di oggi, sperimentino particolari difficoltà o che si riscontri una presenza relativamente inferiore di donne – rispetto agli uomini – in posizioni normalmente associate ai concetti di prestigio e di potere sociale. Tuttavia, ritenere che questi fattori rappresentino la misura di una condizione di complessiva minorità femminile, da contrastare attraverso l’azione politica, potrebbe essere un errore di valutazione. In effetti per inquadrare correttamente le statistiche di genere su cui riposa la strategia offensiva del femminismo è necessario fare due tipi di considerazioni.

In primo luogo, in molti casi la minore presenza femminile in determinate aree ha più a che fare con l’espressione delle preferenze personali delle stesse donne che con quello che a molti piace chiamare “discriminazione”. Basta osservare la demografia di genere delle varie facoltà universitarie (Ingegneria contro Psicologia, Lettere o Scienze della Formazione), i sondaggi sui lavori ideali sognati dalle neolaureate o le preferenze delle donne in termini di conciliazione famiglia-lavoro, per spiegare perché abbiamo più dirigenti di azienda uomini che donne. Naturalmente determinati comportamenti femminili sono correlati a determinati sottostanti culturali e sociali, ma non si può pensare di correggere a tavolino l’esito di una miriade di scelte individuali imponendo un’uguaglianza statistica dei punti di arrivo.

La seconda considerazione riguarda il fatto che le statistiche di genere utilizzate dalla lobby rosa sono fortemente selettive e si concentrano solamente su quegli ambiti dove i numeri confermano la premessa ideologica. In realtà se, anziché guardare alla presenza nei consigli di amministrazione, esaminassimo una serie diversa di fattori potremmo addivenire a conclusioni molto diverse. Ad esempio se prendessimo in considerazione indicatori come il numero di carcerati, di morti sul lavoro, di suicidi, di vittime di incidenti o di persone senza dimora fissa, vedremmo come semmai risultino proprio i maschi – e non le donne – a conformarsi al tipico canone di classe subordinata. Gli uomini, a quanto pare, prevalgono numericamente sia nella parte più alta della società, che nella parte più bassa. Sono al tempo stesso i primi, ma anche gli ultimi. In altre parole, la condizione maschile più che essere banalmente una posizione di maggior privilegio, è una posizione di maggiore esposizione sociale. Sugli uomini grava una forte pressione sociale, legata al modello di ruolo tradizionale di breadwinner. Questo li induce alla competizione e al rischio e li conduce – secondo i casi della vita – al successo oppure al fallimento.

Ritenere un problema politico l’affermazione professionale di alcuni (troppi?) uomini e non le difficoltà e le tragedie di altri è evidentemente ingiusto. È ormai tempo di rapportarci alla questione di genere in un’ottica finalmente inclusiva, riconoscendo la complessità e la vulnerabilità della condizione maschile e quanto essa sia profondamente influenzata dalle aspettative sociali e culturali. Porre l’attenzione sulla questione maschile non deve essere visto come una “reazione”; non si tratta di contestare il processo di emancipazione femminile, né di riportare indietro l’orologio della storia a un qualche passato perduto. Si tratta piuttosto di considerare che solo un percorso inclusivo può condurre al superamento del sessismo e che tale percorso richiede anche il riconoscimento e il superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni contro gli uomini. I fronti su cui sarebbe necessario muoversi sono molti; qui se ne citeranno solamente alcuni che presentano, in questo momento, una particolare valenza politica, culturale ed istituzionale.

Di particolare centralità appare la lotta alle quote e alle azioni positive, che sono uno dei pilastri del femminismo ideologico ma allo stesso tempo rappresentano un vulnus alla concezione liberale del diritto. Non è accettabile che la politica possa permettersi di usare qualsiasi mezzo per perseguire un fine definito a priori. Ci sono dei valori e dei princìpi che dovrebbero essere ritenuti “pre-politici” e non negoziabili – tra questi il principio della neutralità della legge rispetto a caratteristiche quali la razza o il sesso. Il fatto che il potere imponga che una persona ne scavalchi un’altra solo perché questo serve a soddisfare delle statistiche generali è un’offesa alla dignità dell’individuo.

Ma anche leggi scritte in maniera neutra possono essere viziate in fase applicativa da un sessismo anti-maschile. Uno dei casi più rilevanti è quello delle norme sull’affidamento dei figli, in particolare in virtù del sostanziale tradimento, a livello di prassi applicativa, dello spirito della legge del 2006 sull’affido condiviso. Nelle condizioni attuali una separazione può comportare conseguenze distruttive per un padre, sia dal punto di vista del rapporto con i figli che dal punto di vista economico. Lo strabismo dei nostri tribunali è tale che è solo grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che esiti di totale abuso nei confronti degli uomini non diventano la norma.

Infine, particolare importanza ha la necessità di contrastare, con forza, politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile. Se si ripete spesso, specie a sinistra, che “la violenza non ha razza”, allora non è in alcun modo accettabile che si attribuisca alla violenza un sesso e che le campagne di sensibilizzazione sul tema siano espresse in termini sessuati e generalizzanti.  In questo senso la campagna mediatica di questi mesi sul “femminicidio” è una campagna profondamente sessista, che rinfocola gli stereotipi di genere – anziché combatterli – quelli dell’uomo violento e prevaricatore e della donna innocente e naturaliter buona. È dunque una campagna moralmente sbagliata e culturalmente pericolosa, che deve essere confutata se ci stanno a cuore basilari princìpi di rispetto del diritto e delle persone.

In definitiva la sfida di portare il tema della “parità per gli uomini” nel dibattito è ambiziosa, ma politicamente necessaria – la questione maschile è, prima di tutto, una questione di equità sociale e di diritti civili. Se non saremo in grado di coglierla pagheremo un prezzo molto alto nei prossimi anni in termini di disagio sociale degli uomini e più in generale di avvelenamento dei rapporti tra i sessi.