Spiagge ai privati? Una sanatoria fuori dal mercato. E la premessa per un disastro
Innovazione e mercato
La vulnerabilità delle coste italiane, la conseguenza di decenni di disattenzione e pressapochismo. A lungo le spiagge sono state lo spazio nel quale una certa architettura sembra essersi esercitata a sperimentare soluzioni, quasi si fosse trattato di uno spazio neutro. Anche per questo tanti centri balneari vicini hanno visto progressivamente saldare i rispettivi archi litoranei con costruzioni di ogni tipo. Le spiagge sono diventate l’esile affaccio a mare di complessi residenziali evidentemente fuori scala. Gli arenili un susseguirsi di stabilimenti. Sull’Adriatico come sul Tirreno, le concessioni demaniali un bussiness spesso incontrollato, quasi sempre un’occasione per concedere rendite fuori dal tempo e dal mercato. L’emendamento alla legge di Stabilità, che prevederebbe la “sdemanializzazione” di alcuni tratti di arenile, promette (ma non si conoscono i criteri del calcolo, che pare assai ottimistico) di far entrare nelle casse statali tra i 4 e i 5 miliardi. Ma anche di accrescere gli squilibri ambientali e urbanistici.
“In principio c’era Villa Volpi (ma non era l’unica) … sul tramonto degli anni Cinquanta … Da quegli anni, la spiaggia di Sabaudia è … molto cambiata. Altre case, tantissime, costellano ormai le dune, una vera e propria città che si allinea al mare, salendo verso nord a perdita d’occhio”. Scriveva così su La Repubblica nell’agosto del 1994 Enzo Siciliano, ricordando le sue estati con Moravia e Pasolini in una delle località più note del litorale laziale. Palazzoni in cemento quasi affacciati sulla spiaggia hanno ridefinito il paesaggio di altri luoghi, di altri addensamenti urbani come accaduto ad Ostia, a Tor San Lorenzo, ad Anzio. Le spiagge sono state suddivise in spazi irregolari dagli stabilimenti. Il diritto alla libera balneazione violato in nome dei servizi offerti a pagamento. La possibilità di osservare la linea della costa e quindi il mare cancellata dalle strutture invasive e permanenti che costituiscono la definizione architettonica di quegli stabilimenti. Quasi ininterrottamente presenti sulle nostre spiagge, senza sostanziali differenze. Da una regione all’altra, da una provincia all’altra.
In prossimità degli arenili si sono consumati scempi incredibili. Edifici di vario tipo ad uso abitativo, dalla villetta alla palazzina, fino al grattacielo. Come lo “Scacciapensieri” di Nettuno, oppure quelli di Porto Recanati e di Civitanova Marche, di Rimini e del Lido di Jesolo. Ma anche Hotel, villaggi turistici e porti. Storie non solo di abusi realizzati in maniera illegale. Opere spesso progettate e realizzate regolarmente. I circa 5mila chilometri di costa italiana sono uno spazio nel quale sono state letteralmente bruciate le potenzialità ambientali, qualche volta anche storiche e archeologiche, in nome di interessi particolari. Cercando di giustificare operazioni ispirate dalla follia, con l’economia di un settore del mondo del lavoro, di un ambito territoriale.
In un contesto così precario, dagli equilibri già in parte compromessi, l’attualità politica s’inserisce con questa proposta. Tra i 3.093 emendamenti alla legge di stabilità c’è anche quello del senatore del Pdl, Sergio Pizzolante, sulla “sdemanializzazione” di alcuni tratti di arenile, da cedere a chi ne ha già la concessione.
Il ricorso alla vendita di beni comuni per recuperare risorse utili a rimpinguare le esangui casse statali è opzione che può essere presa in considerazione, ma con necessari distinguo. Proporre la vendita di beni demaniali, limitatamente a quelli riguardanti le “30mila imprese italiane che hanno fatto investimenti” in nome di una riqualificazione delle strutture turistiche, non servirebbe a ridurre il debito pubblico, ma a trovare una soluzione in extremis all’obbligo di procedere, secondo il dettato della direttiva Bolkestein, alla messa a gara delle concessioni balneari che finora sono state rinnovate automaticamente di anno in anno a prezzi ridicoli.
E sarebbe una soluzione peggiore del male, dato che in questo modo lo Stato e le regioni rinuncerebbero alla possibilità di entrate regolari e consistenti, derivanti dalle gare, per un introito occasionale, presumibilmente di modesta entità. Più che un’operazione di dismissione di patrimonio pubblico, sarebbe l’esercizio di un diritto di riscatto di interi pezzi di litorale da parte degli incumbents, al di fuori di qualsiasi regola di mercato e di apertura alla concorrenza.
E tutto ciò al costo, questo sì assai elevato, di derubricare il patrimonio italiano ad un tesoretto al quale attingere nei momenti di necessità. Di certificare la debolezza della figura statale, giustificando la sostanziale dismissione di parte del proprio litorale con la pretesa di un’operazione a favore di un numero considerevole di imprenditori del settore. Quasi un premio, una sanatoria definitiva, per gli scempi già perpetrati. Nulla di liberale: sarebbe la resa dello Stato di fronte ad interessi di carattere corporativo.
La questione poi presenta indubbie contrarietà sul piano ambientale e urbanistico. I dati dell’Ispra, ogni anno, sanciscono la crescita della percentuale di territorio costiero e paracostiero interessato da interventi invasivi e irreversibili. Questo “uso del territorio non rispettoso delle sue vocazioni naturali” ha provocato l’aumento di fenomeni degenerativi come l’erosione marina, distrutto dune e pinete costiere, provocato allagamenti e accelerato l’estinzione delle specie marine acclimatate.
Cemento in quantità spalmato lungo un tratto di costa. Non solo quello di moli e banchine. Soprattutto quello delle infrastrutture di contorno. Insomma strade, parcheggi, hotel, centri commerciali e, naturalmente, centri residenziali. In Calabria, stando ad uno studio della Regione, su 700 chilometri di costa sono stati perpetrati 5.210 abusi, dei quali 54 all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 in Zone a protezione speciale, incluse le aree archeologiche. In Liguria sono ben 50 i porti turistici, con una previsione di crescita del 50%. Si potrebbe continuare, sfortunatamente.
Le spiagge private vedrebbero un incremento sostanziale delle attrezzature ricettive? Un loro utilizzo più intensivo? Dipenderebbe dalla capacità dello Stato di far applicare le regole che non è riuscito ad applicare nemmeno sui beni demaniali. Le premesse per un disastro, insomma, ci sono tutte. E quel che si costruirà lì dentro, quanto si muterà, finirà per riverberarsi anche “fuori”. Le scelte che si faranno all’interno di quegli spazi litoranei, produrranno degli effetti che, molto probabilmente, saranno riconoscibili anche lungo le spiagge ancora demaniali. Magari in attesa di un'ulteriore sanatoria.