Né privatizzazione, né liberalizzazione: per Poste il solito pasticcio all'italiana
Innovazione e mercato
Si può parlare di vera privatizzazione nel caso dell’IPO di Poste Italiane? L’offerta pubblica di vendita riguarda una quota del capitale, ora integralmente detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, compresa tra un minimo del 34,7% e un massimo del 38,2%. Questo significa che, dopo la conclusione del collocamento e la quotazione in Borsa, oltre il 60% delle azioni resterà saldamente in mano allo Stato, garantendo il proseguimento del pieno controllo pubblico dell’azienda. I sottoscrittori privati, compresi gli istituzionali, godranno della distribuzione dei dividendi nei prossimi esercizi ma non avranno alcuna voce in capitolo sulla gestione aziendale.
Poiché lo Stato comanderà come prima non si può parlare di privatizzazione in senso proprio, intesa come cessione del controllo di un’azienda pubblica e suo conseguente passaggio al settore privato. Nella tradizione europea, inaugurata in Gran Bretagna dai governi di Margareth Thatcher, le privatizzazioni sono invece consistite nel passaggio al mercato della proprietà di aziende che erano già in precedenza divenute di mercato per comportamenti, data la caduta di ogni protezionismo pubblico, e regole, data la liberalizzazione preventiva dei rispettivi mercati. Da esse lo Stato è interamente uscito sino a non possederne più neanche un’azione.
Questi processi sono in genere avvenuti in quattro tappe: 1) lo Stato istituisce un arbitro indipendente del mercato, un’Autorità di regolazione, precludendosi la possibilità di ‘proteggere’ la controllata pubblica; 2) liberalizza il mercato garantendo l’accesso su basi paritetiche ai nuovi operatori; 3) cede il controllo dell’azienda attraverso la privatizzazione; 4) esce del tutto dall’azionariato.
Nel caso delle Poste Italiane non si è verificata nessuna di queste quattro tappe. Il mercato del recapito è stato legalmente liberalizzato il più tardi possibile e senza garantire condizioni paritetiche a tutti gli operatori ma anzi riservando a Poste Italiane una serie cospicua di vantaggi: l’assegnazione su tutto il territorio nazionale e per un tempo lunghissimo e senza alcuna gara del compito di garantire il servizio universale; l’esenzione dall’Iva, al contrario dei suoi concorrenti; la permanenza di un regime di monopolio per il recapito degli atti giudiziari; l’assoggettamento tardivo alla regolazione dell’Autorità delle comunicazioni; verifiche che si sono rivelate fallimentari dell’effettiva qualità del recapito. La privatizzazione senza cessione del controllo è il punto di arrivo di questo percorso, pienamente coerente ma agli antipodi delle best practices internazionali.
Essa è inoltre pienamente in linea con le privatizzazioni storiche condotte dall’Italia che non hanno mai ritenuto di doversi far precedere da robusti processi di liberalizzazione, non hanno visto quasi mai la cessione del controllo e nei pochissimi casi in cui questo è avvenuto hanno trasferito ai privati robuste e indebite rendite anziché restituirle ai consumatori. Le ‘privatizzazioni’ italiane, ma sarebbe meglio chiamarle privatizzazioni all’italiana, sono tipiche di un paese che non crede al mercato e alla concorrenza e nel quale lo Stato è anche disponibile a vendere, se ha bisogno di soldi, ma solo a condizione di poter disporre come prima delle proprietà cedute. Si sono fatte in conseguenza privatizzazioni senza mercato oppure privatizzazioni yo-yo nelle quali l’impresa va in effetti verso il mercato ma si è sempre in grado di richiamarla indietro quando serve. Parafrasando doppiamente von Clausewitz possiamo sostenere che in Italia la privatizzazione è il proseguimento della proprietà pubblica con i mezzi degli altri.
Cosa accadrà a Poste Italiane dopo la quotazione? Resterà come prima azienda di Stato; resterà azienda protetta nel mercato in virtù delle regole ad essa molto favorevoli adottate in sede di recepimento della terza direttiva postale (mentre prima di essa era addirittura protetta dal ‘mercato’); la sua redditività dipenderà come ora principalmente da scelte pubbliche e dai rapporti finanziari col settore pubblico. Essa inoltre dovrà in qualche modo essere garantita, per non deludere gli azionisti privati, mentre sinora non vi è stata questa esigenza.
Da cosa è determinata la redditività di Poste? Dalla sua capacità di stare sul mercato, certificata dalla concorrenza? Questo vale probabilmente per i servizi assicurativi ma non per gli altri due segmenti più rilevanti. Nel recapito, che non ha mai svolto un ruolo di rilievo nel processo di riorganizzazione, l’azienda perde da sempre, nonostante rilevanti compensazioni pubbliche per il servizio universale che in molti Paesi europei non vengono concesse e nonostante l’Italia abbia recepito le direttive comunitarie di settore mantenendo la concorrenza fuori dal mercato il più a lungo possibile. Nel bancoposta, il settore che ha trainato la redditività dall’inizio del decennio 2000, essa dipende per una quota rilevante da un unico grande cliente, per di più pubblico, la Cassa Depositi e Prestiti per il quale raccoglie il risparmio postale.
La redditività delle Poste si basa su tre pilastri fondamentali, nessuno dei quali è di mercato: compensi pubblici per la raccolta del risparmio, compensazioni pubbliche per il servizio universale del recapito e il fatto di svolgere servizi finanziari utilizzando personale che gode di un contratto molto meno favorevole di quello dei bancari. Poiché solo il settore pubblico può garantire la permanenza nel tempo di questi tre pilastri, la privatizzazione parziale riguarda non un’azienda di mercato bensì un’azienda a redditività di Stato, qualcosa di cui non sembra esservi precedente traccia nella pur lunga storia delle economie occidentali.