Quella contro l'olio di palma è la classica campagna dalla quale un politico può solo guadagnare: permette di apparire, nello stesso tempo, come difensori dell'ambiente e della salute, mentre chi dalla campagna potrebbe essere danneggiato è talmente distante da non procurare alcun timore per l'immagine e il consenso. Per le stesse ragioni è molto complicato schierarsi a favore dell'olio di palma: a livello di opinione pubblica la contrapposizione tra piantagioni industriali e foreste tropicali non è certo di quelle che i bookmakers quoterebbero alla pari. Ma è un modo corretto di vedere le cose?

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Spesso le piantagioni di palme da olio prendono il posto delle foreste, questo è un fatto innegabile, e le foto aeree delle quote di foresta indonesiana disboscata per fare spazio ai filari regolari di palme sono immagini che colpiscono. Per quanto si tratti comunque di alberi che prendono il posto di altri alberi (e questo è un fatto che non andrebbe mai dimenticato), in Occidente tendiamo a rifiutare l'idea che un ambiente incontaminato, e carico di tanto valore simbolico, venga destinato ad attività umane. Eppure, proprio dalle nostre parti, anche i pascoli e le coltivazioni di foraggere e cereali che alimentano il bestiame da latte da cui si ricava il burro hanno sostituito le foreste. Anche gli ulivi, così tipici del nostro paesaggio mediterraneo, sono stati piantati dall'uomo in regioni in cui, un tempo, la copertura forestale era più estesa, molto più estesa, di quella attuale.

Lo storico dell'agricoltura e del paesaggio Emilio Sereni ha dedicato pagine molto interessanti (e belle, anche dal punto di vista narrativo) alla storia dell'ambiente mediterraneo, spiegando come anche quello che oggi vediamo libero da coltivazioni non sia un paesaggio "naturale", ma sia stato fortemente condizionato dall'azione dell'uomo: non è casuale la diffusione di tante varietà di piante resistenti al fuoco o i cui semi resistono al fuoco (la ginestra, ad esempio), dal momento che nell'antichità la pratica del debbio, ovvero della bruciatura di aree di foresta, era la più usata per procurare terreni coltivabili e pascoli. I terreni venivano sfruttati giusto per il tempo in cui perdurava l'azione fertilizzante derivante dalla bruciatura della vegetazione preesistente, e poi abbandonati, in un ciclo che dal neolitico in poi ha visto sostituire progressivamente (ma molto rapidamente) la copertura forestale originaria con quella che oggi siamo soliti chiamare "macchia mediterranea".

La domanda di olio di palma è sensibilmente cresciuta negli ultimi anni, e questo ha messo molti in allarme, a partire da chi sta vedendo progressivamente assottigliare le proprie quote di mercato. Ma questo non deve far dimenticare che le alternative all'olio di palma sono altri prodotti non necessariamente migliori per caratteristiche nutrizionali (su questo aspetto torneremo senz'altro), né più sostenibili dal punto di vista ambientale. O preferiremmo che le foreste, dove clima e caratteristiche del terreno lo consentono, facciano posto a campi di soia, colza o arachidi?

La coltivazione della palma da olio richiede meno input energetici (acqua, pesticidi, fertilizzanti, carburante) rispetto alle alternative, ed è enormemente più produttiva. Questo non dovrebbe garantire all'olio di palma un trattamento di favore da parte dei governi, ma nemmeno ostacoli: quando si parla di sostenibilità, questi sono fatti che andrebbero tenuti in considerazione. Così come va tenuto in considerazione il fatto che si tratta di una deforestazione "controllata": la Malesia, per citare il caso di un paese che ha fatto dell'olio di palma un'importante risorsa per il proprio sviluppo, non è mai venuta meno agli impegni presi nelle conferenze internazionali su ambiente e clima, a cominciare dall'impegno a mantenere il 50% del proprio territorio coperto da foreste. Quale dei paesi occidentali, dai quali partono le campagne protezionistiche contro l'uso dell'olio di palma, può vantare una copertura forestale tanto estesa?

Perché, è bene ricordarlo, quando parliamo dell'olio di palma parliamo di un importante risorsa economica per molti paesi in via di sviluppo. E' comprensibile sentirsi minacciati dalla crescita economica di questi paesi, ma è ripugnante pretendere di conservare posizioni di vantaggio negando ad altri lo sviluppo del quale noi beneficiamo a piene mani. Abbiamo idea di quante persone lavorino nella filiera dell'olio di palma, e quante famiglie grazie a esso siano uscite dalla povertà, mentre affondiamo le nostre parti molli nel divano twittando in difesa della foresta tropicale, tra un commento sull'ultima puntata di masterchef e una foto dei crostini all'aperitivo della sera prima?

Ancora una volta, in nome di un malinteso concetto di sostenibilità ambientale, rischiamo di trasformare i paesi in via di sviluppo nella discarica della nostra cattiva coscienza.