logo editoriale

150 milioni di trasferimenti statali in meno e la cessione di quote di RAIWay: così prevede il decreto del governo sulla spending review. Ieri il cda RAI si è portato avanti, approvando la decurtazione dello stipendio dei dirigenti per rientrare nel tetto di 240 mila euro lordi fissato dal governo per il settore pubblico.

La presidente Anna Maria Tarantola ci perderà un bel po': circa 130 mila euro sullo stipendio pre-taglio. Non risulta ancora ridefinito, invece, il compenso dell'attuale direttore generale, Luigi Gubitosi – che percepisce attualmente 650mila euro e con il quale sono in corsodelle  trattative. Non più di una decina i dirigenti off quota. Il più ricco dei quali, Augusto Minzolini, oggi parlamentare di Forza Italia e quindi in aspettativa, era stato assunto con un contratto da 500mila euro.

L'operazione depauperamento degli stipendiati pubblici apicali prosegue con ordinata coerenza. Non serve a sanare inefficienze gestionali, né a garantire un'amministrazione imprenditorialmente virtuosa, né a risparmiare all'azienda finanziata dal contribuente la zavorra clientelare dello shareholder politico.
È un'operazione simbolica, popolare, più che populista, ma coerente con i criteri 'egualitari' che in Italia governano – con le performance di cui siamo testimoni - la dimensione dell'economia pubblica, in cui si deve far lavorare tutti, facendo a tutti guadagnare poco; e quel poco, a prescindere.

In un'azienda privata, organizzazione del personale e relativa retribuzione sono una funzione variabile e dipendente dal mercato, dai profitti, dalla redditività. Un'azienda pubblica non opera in un mercato alieno: produce anch'essa servizi e quei servizi possono essere valutati con criteri oggettivi, come introiti pubblicitari, audience, qualità. È l'innovazione che determina gli orientamenti del mercato. Cosa ha inventato di nuovo la Rai in questi decenni? Quali nuovi prodotti, marchi, settori produttivi ha reso player centrali dell'offerta televisiva?

La Rai produce un bene essenziale come l'informazione, al quale si riconosce il valore di servizio pubblico. L'informazione tuttavia non è più – e da tempo - monopolio dello Stato. Il servizio pubblico è una merce scambiata ormai quotidianamente da una pluralità di operatori privati con altrettanto e spesso superiore riscontro nel mercato. Sky, La 7 producono informazione, producono "servizio pubblico", ma non gravano sul contribuente. Fare servizio pubblico televisivo e guadagnarci si può. E si fa servizio pubblico anche da privati.

Martedì scorso, a Ballarò, Giovanni Floris ha contestato al Presidente del Consiglio Matteo Renzi il taglio di 150 milioni alla Rai – come prevede l'ormai famoso decreto sugli 80 euro - sostenendo che così ci avrebbe guadagnato Mediaset, la seconda stanza del bi-televisionismo perfetto che ha traslato sul piano della comunicazione televisiva la stessa inconcludenza, statica ed auto conservativa, del sistema istituzionale perfettamente bicamerale. Cioè, per Floris Ballarò è servizio pubblico per il solo fatto di essere pagato con denaro pubblico. Quello di Santoro o Formigli o Telese evidentemente è altro.

Renzi però insiste e allora la pletora insorge. E non è solo il sindacato aziendale a issare barricate, pure la Conferenza Stato-Regioni si oppone al paventato rischio di razionalizzare i costi delle sedi locali, mentre in commissione bilancio al Senato sono stati presentati emendamenti di Pd, Forza Italia e persino dei grillini (i testi saranno disponibili solo martedì, ad avvio della discussione). Pure loro, i grillini, quelli che la tv è casta, e la Rai è la più casta di tutte, allineati con i colleghi più spartitoriamente esperti contro la scure rottamatrice.

La tv di Bruno Vespa, del Festival di Sanremo, di The voice diventa servizio pubblico di pregio, ed ovviamente è solo un caso se la logica anticastale grillina cambia antipodicamente verso sul valore dell'azienda di Stato proprio mentre si prepara il ritorno di Beppe Grillo nel più importante dei salotti nazional-lottizzati. O no?

@kuliscioff

 

Rai