È di pochi giorni fa la notizia che l’Alde, il partito liberal-democratico europeo, il primo febbraio sceglierà con una sorta di “mini-primaria” il suo leader per la campagna elettorale del maggio prossimo, nonché candidato alla presidenza della Commissione europea. I due candidati che si contenderanno la nomination sono l’ex premier belga Guy Verhofstadt e l’attuale commissario agli Affari economici (da noi ben noto come l’austero fustigatore dei conti pubblici venuto dal Nord), il finlandese Olli Rehn. Un solo nome, invece, per il Pse, che confermerà nei prossimi mesi come suo frontrunner - salvo sorprese dell’ultimo minuto - il tedesco Martin Schulz (conosciuto da noi per il memorabile siparietto nel quale Silvio Berlusconi, presentando a Strasburgo il semestre italiano di presidenza dell’Ue, gli diede del kapò). 

Ancora da decidere, invece, chi correrà per il principale euro-partito, il Ppe (ovvero colui o colei che avrà le maggiori chance di prendere il posto di Barroso): si deciderà a Dublino a marzo (gioca in casa il premier irlandese Enda Kenny, fra i papabili assieme al suo omologo polacco Donald Tusk: ma a decidere, alla fine, sarà Angela Merkel). Anche i Verdi terranno le loro primarie nelle prossime settimane, mentre la Sinistra ha scelto di affidarsi al carismatico leader di Syriza, il greco Tsipras. Insomma, si notano già i primi effetti del Trattato di Lisbona, che nel nominare l’esecutivo comunitario impone al Consiglio Europeo di tener conto del risultato delle elezioni per il rinnovo del Parlamento, e indirettamente “obbliga” le forze politiche a coordinarsi su scala continentale personalizzando la campagna elettorale. Siamo ancora lontani dall’elezione diretta di un presidente dell’Unione, sogno “proibito” dei più accesi europeisti, ma è comunque qualcosa.

Certo, non è facile accendere l’entusiasmo degli elettori oggi, che Bruxelles assume alternativamente, a seconda dei gusti e delle esigenze propagandistiche, i tratti della grande Weimar, incapace di fronteggiare la crisi e di sfidare le fiammate populiste e nazionaliste, o al contrario quelli di una Spectre continentale che silenziosamente deruba milioni di cittadini delle proprie libertà e delle proprie risorse. Non che l’Ue sia priva di responsabilità, anzi. Sull’incapacità di accompagnare l’unione monetaria a una vera unione politica si è scritto, e molto, negli ultimi anni. Così come sui limiti della euro-burocrazia, sulla mancanza di una politica estera comune (requisito fondamentale per competere sulla scena globale con potenze vecchie e nuove), sul divario fra Nord e Sud del continente. Ma ci si dimentica troppo spesso che a governare l’Europa sono, fino a prova contraria, non gli alieni ma i leader europei, legittimati - se non a livello comunitario, certamente a livello nazionale - dai cittadini europei. I quali hanno dunque la possibilità di indirizzare scelte e strategie più di quanto accada in molte altre parti del mondo.

Le elezioni europee, a maggior ragione oggi, dovrebbero per questo essere uno dei principali appuntamenti politici nella vita di un paese. Naturalmente, non accade. Men che meno in Italia, che pure è stata per anni - prima di assaporare la crisi - l’avanguardia dello spirito comunitario.

Non c’è da stupirsi se anche stavolta il voto europeo sarà raccontato e vissuto come un’appendice del dibattito interno: una data la cui utilità principale risiede nella possibilità di svolgervi anche le elezioni politiche, uno strumento per testare nuove leadership (Renzi e Alfano), per vivificare quelle vecchie (Berlusconi) o per tentare qualche nuovo esperimento (soprattutto al centro). Tutto, meno quel che dovrebbe essere, ovvero una seria riflessione sul futuro di quella che, ci piaccia o no, è la nostra “casa comune”.

È un po’ quello che succede con il semestre di presidenza italiana dell’Ue che si aprirà a luglio: per ora il governo ha dimostrato di saperlo utilizzare come “assicurazione sulla vita”. Si attende una seria road map su cosa l’Italia intende portare in Europa in quei sei mesi, che non sono sei mesi qualunque ma vedranno l’insediamento del successore di Barroso alla guida della Commissione e la scelta del successore di Herman van Rompuy alla guida del Consiglio. Non partecipare con la dovuta attenzione alle elezioni di maggio sarebbe un peccato; perdere l’occasione di dare il proprio imprinting, al di là dell’ordinaria amministrazione, a una nuova fase della vita politica comunitaria sarebbe un errore imperdonabile (oltre che molto stupido).