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Roma Capitale sembra destinata a diventare una sorta di Alitalia istituzionale, un buco con la greppia intorno, un mostro giuridico-economico che in nome della “capitalità” (un’italianità al quadrato o al cubo) può, in buona misura, fottersene delle regole comuni ed esigere e ottenere deroghe speciali.

Roma Capitale ha la sua bad company (la Gestione Commissariale), in cui ha impacchettato il debito fino al 2008 (oltre 12 miliardi, quando venne istituita) e in cui oggi, con l’ennesimo provvedimento salva-Roma, in discussione al Senato ficca nuovo debito, sollevandone le casse comunali. Roma Capitale per far fronte al debito eccessivo ha “meritato” dal 2008 un contributo annuale straordinario e poi ordinario di mezzo miliardo di euro e un sistematico pronto soccorso legislativo anti-default. Roma Capitale ha anche i suoi pretoriani istituzionali, neppure tutti romani, che ne difendono il diritto all’eccezionalità. Insomma, Roma Capitale ha tutto quello che non bisognerebbe avere per apparire, almeno apparire, un’amministrazione rispettabile.

Ora, mentre il Senato discute delle nuove “eccezioni”, a sollevare scandalo è la richiesta di tornare in qualche misura alla regola. Un emendamento presentato da Linda Lanzillotta e Pietro Ichino e votato in Commissione da un fronte trasversale (Pd compreso) chiedeva a Roma Capitale di contraccambiare le cortesie mettendo mano anche al proprio patrimonio (dismissioni di partecipazioni in società quotate, leggasi Acea), e liquidando tutte le società partecipate che non gestiscano direttamente servizi pubblici. Si trattava di scelte che qualunque soggetto economico, pubblico o privato, con i bilanci di Roma Capitale sarebbe obbligato a fare, ma che, a quanto pare, è intollerabile esigere dai vecchi e nuovi apologeti dell’eccezione romana.

Infatti, come era prevedibile, l’emendamento è stato riscritto in modo da dire l’esatto contrario. Acea non si tocca, e tutto il resto neppure. Ed è chiaro perché niente si deve toccare: ciò che fa il vuoto in termini finanziari fa comunque il pieno in termini di consenso. È il debito di Roma la greppia elettorale della politica romana. Per tutti, trasversalmente. Per Marino, come per Alemanno. Per il Pd come per la destra. Intanto prendiamo nota, “Roma bene comune” è l’ultima frontiera dell’imbroglio “benecomunista” e miete le prime vittime anche nel nuovo Pd, dove comanda Renzi, ma continua a decidere Fassina.