Onu contro Onu. Il blocco navale di Gaza e le provocazioni della Flotilla
Diritto e libertà

La questione della Sumud Flotilla carica di aiuti umanitari verso Gaza è l’ennesimo, rischioso capitolo di un conflitto che rende evidente la crisi della legalità internazionale. L'obiettivo dichiarato degli attivisti imbarcati è portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e rompere l’isolamento della Striscia; ma l’atto di forzare il blocco navale israeliano costituisce una sfida politica e giuridica che ripropone il tragico dilemma del 2010: cosa succede quando il diritto alla vita e all’assistenza si scontra con il diritto alla sicurezza dello Stato? La risposta è intrappolata in un drammatico scisma normativo che ha diviso le Nazioni Unite, lasciando il sistema multilaterale incapace di fornire una “verità legale” univoca.
Per inquadrare storicamente l'istituzione del blocco di Gaza, istituito non come atto di aggressione, ma come reazione a un cambio di regime, è essenziale risalire alla sua genesi. La misura restrittiva fu innescata dalla violenta presa di potere di Hamas nel giugno 2007, che spodestò l'Autorità Palestinese dopo una sanguinosa guerra civile. Questo vero e proprio colpo di stato stabilì Hamas come autorità de facto e amministrativa nel territorio. In risposta a questo cambiamento politico e di sicurezza, che ha comportato un aumento dei lanci di razzi e mortai dalla Striscia verso il suo territorio, Israele dichiarò Gaza un’entità ostile e furono istituite misure di sicurezza che includevano restrizioni sui valichi di confine terrestri.
Il blocco navale fu imposto solo più di un anno dopo, nel gennaio 2009, come una specifica misura di sicurezza marittima, volta a impedire l’ingresso di armi e materiale bellico via mare, in reazione a incidenti di navi che avevano tentato di raggiungere Gaza con armi e alla crescente minaccia di infiltrazioni terroristiche dalle acque antistanti Gaza, concretizzatesi più volte con attacchi condotti da commando di sommozzatori e l’uso di fast boat cariche di militanti che tentavano di colpire obiettivi civili e militari sensibili lungo la costa israeliana, in particolare nell’area del kibbutz e della base militare di Zikim.
Sebbene vi fossero già stati alcuni tentativi di forzare il blocco navale, nel maggio 2010 vi fu il primo serio incidente con l’abbordaggio della nave turca Mavi Marmara, che provocò la violenta reazione della marina israeliana e la morte di nove degli attivisti presenti sulla nave. A seguito dell’incidente del 2010, il sistema delle Nazioni Unite produsse due rapporti che, invece di sanare la frattura, la cristallizzarono. Il Segretario Generale dell’ONU diede mandato a un panel di esperti di investigare i fatti, le circostanze e il contesto dell’incidente della flottiglia, con l'obiettivo di raccomandare come evitare incidenti futuri.
Nelle sue conclusioni il Rapporto Palmer stabilì che il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza era una misura di sicurezza legale secondo il diritto internazionale, data la minaccia reale e i precedenti tentativi di infiltrazione via mare da parte di gruppi terroristici; condannò l’uso della forza da parte delle forze israeliane durante l'abbordaggio come eccessivo e irragionevole e ritenne “inaccettabili” la perdita di vite e i feriti causati; infine il rapporto criticò la condotta degli organizzatori della flottiglia definendola “sconsiderata” e “incauta” e notando che alcuni passeggeri avevano opposto una “resistenza significativa, organizzata e violenta” ai soldati israeliani.
Contemporaneamente il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU stabilì una propria Missione d'Inchiesta con il mandato di esaminare la violazione del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale. A differenza del Rapporto Palmer, la Missione d'Inchiesta del CDU concluse che il blocco era illegale a causa del suo impatto sproporzionato sulla popolazione civile di Gaza. Il rapporto concluse che le forze israeliane avevano commesso violazioni del diritto internazionale e che i crimini commessi potevano costituire crimini contro l'umanità.
La discrepanza tra le conclusioni di questi due rapporti ONU riflette la polarizzazione e la selettività politica che circonda il conflitto, in particolare per quanto riguarda la legalità del blocco, giudicata legittima dal Segretario Generale (Rapporto Palmer) e illegale dal Consiglio per i Diritti Umani. Il risultato è un oblio selettivo che consente alla politica di usare il rapporto del CDU per denunciare l’illegalità del blocco e usa il Rapporto Palmer per denunciare l’illegalità dell'uso della forza, ignorando sistematicamente la parte del Palmer che conferisce legalità all'istituzione del blocco navale da parte di Israele.
In questo contesto, l’odierna Sumud Flotilla è un atto di militanza ideologica che sfrutta la crisi della coerenza normativa. La sua azione massimalista cerca lo scontro per forzare la sua narrazione e sposa la narrativa che nega il diritto stesso di Israele a esistere e difendersi. Questa vicenda evidenzia il fallimento sistemico del multilateralismo, cristallizzato nello scisma normativo dei due rapporti ONU che producono due “verità” contraddittorie sulla legalità del blocco. Questo indebolimento dell’autorità internazionale è sfruttato dall’azione della flottiglia che utilizza l’assistenza umanitaria come uno strumento politico di sfida, mettendo in discussione la neutralità dell’aiuto in un contesto dove le norme sono ridotte a mera arma narrativa per la delegittimazione del nemico.






