Un artista contemporaneo egiziano, in uno spettacolo di marionette, rilegge la storia delle Crociate da diverse prospettive. Come ogni opera d’arte ben riuscita, tuttavia, il suo intento non è quello di fornire risposte, ma consiste nello stimolare lo spettatore alla riflessione, suggerendogli punti di vista differenti.

Strati marionette

C’è un famoso film di Akira Kurosawa del 1950, Rashomon, nel quale la storia di un omicidio è narrata in modo ogni volta differente dalle diverse persone che hanno assistito o vissuto il misfatto.

Ogni racconto è diverso, insegnava il film, perché i diversi punti di vista sulla storia variano la lettura. Poiché ciascuno racconta la sua versione della storia con lo scopo di preservare se stesso e fornire, in sostanza, la versione dei fatti che più favorisce il proprio tornaconto, la verità sfugge, il senso diventa scivoloso e difficile da definire.

C’è poi un meccanismo inconscio che in psicologia si chiama proiezione: consiste nell’attribuire all’altro, meglio se riconoscibile come “diverso”, le caratteristiche di noi stessi e del nostro carattere/comportamento che non accettiamo né riconosciamo come nostre.

Mescolate questi due elementi e verrà fuori una visione del mondo e della storia degna del più marcato sciovinismo.

La questione della differenza di letture della storia, e la conseguente tradizione che ne viene tramandata, così come il rapporto problematico con il “diverso”, riguardano da vicino la nostra quotidiana esperienza storica e politica. “La storia siamo noi”, cantava Francesco De Gregori qualche tempo fa. E questo è vero sia perché siamo noi che facciamo la storia, anche con le nostre più o meno consapevoli scelte quotidiane, sia perché siamo sempre noi che, leggendo la storia del passato, decidiamo di privilegiare una chiave di lettura rispetto a un’altra e quindi una ricostruzione del passato rispetto a tutte le altre possibili, trovando di volta in volta colpevoli e capri espiatori utili a fomentare la visione del mondo che più ci aggrada.

Queste due modalità di comprensione della storia recente e passata entrano in gioco in modo particolare oggi, quando ci troviamo a fare i conti con la cultura islamica.

Il rapporto tra cultura occidentale e cultura araba affonda le sue radici nel passato più remoto. Non tutti sembrano ricordarsi che il pensiero occidentale deve molto a pensatori arabi come Averroé (nickname del signor Abū al-Walīd Muḥammad ibn Aḥmad Ibn Rušd), il quale ebbe il merito di traghettare nel bel mezzo del Medioevo, in barba alle censure protocattoliche e anti-pagane dell’epoca, nientemeno che il pensiero di Aristotele. Senza di lui probabilmente non avremmo avuto pensatori come Tommaso d’Aquino e scrittori come Dante.

Così come nel caso della filosofia, per quasi tutti gli eventi storici del passato la lettura che abbiamo del rapporto tra le due culture, araba e occidentale, è spesso unilaterale. Le crociate, per esempio. Che cosa ne sappiamo? Ci siamo mai chiesti come sarebbero raccontate da fonti arabe? Che cosa ne penseremmo e come ci apparirebbe la storia?

Più in generale: in che modo impareremmo a guardarci intorno, a leggere le notizie sui media e a confrontarci con ciò che accade nel mondo (e in casa nostra) se tenessimo presente l’insufficienza di un punto di vista unilaterale sui fatti? È questa la domanda che si è posto Wael Shawky, artista contemporaneo classe 1971, nato ad Alessandria d’Egitto ed oggi asceso alle vette della popolarità nel mondo dell’arte a livello internazionale.

Reduce da esposizioni personali nei maggiori centri di arte contemporanea mondiali, tra cui il MOMA PS1 di New York e il Victoria and Albert Museum di Londra, l’artista egiziano è stato, tra le altre cose, il vincitore della prima edizione del Premio Mario Merz, ed è inoltre prossimo a inaugurare una doppia importante personale che si svolgerà simultaneamente in due prestigiosi spazi espositivi italiani, a Torino. A partire dal prossimo 2 novembre, infatti, la Manica Lunga del Castello di Rivoli ospiterà una serie di opere di Shawky, alcune delle quali già oggetto della sua mostra newyorkese, a cui se ne aggiungeranno altre studiate ad hoc per la nuova sede espositiva. Al contempo altre opere di Shawky saranno esposte presso la Fondazione Merz, questa volta con un allestimento studiato in modo da porre in dialogo le opere dell’artista egiziano con quelle del maestro torinese. La mostra, anzi, le mostre, sono programmate per il momento clou dell’arte contemporanea torinese, la fiera di Artissima.

In tempi in cui il dialogo tra culture si fa sempre più urgente, la scelta di questo artista e del suo lavoro non è certo casuale, soprattutto in una città come Torino, dove l’integrazione tra culture è più felice e ben riuscita che altrove. Il legame di Shawky con Torino è comunque piuttosto intenso già da qualche anno, non soltanto per la collaborazione con la Fondazione Merz e, oggi, con il Castello di Rivoli, ma anche perché alcune delle marionette con cui ha realizzato alcuni suoi lavori sono pezzi antichi che provengono dal Museo Lupi di Torino.

La domanda circa la legittimità delle letture e narrazioni storiche, sullo sfondo del rapporto tra culture e religioni, è al centro della poetica di Shawky.

La sua opera più nota s’intitola Cabaret Crusades. Si tratta di una trilogia di film realizzati interamente con marionette. Facendo accurate ricerche sulla storia delle crociate, l’artista ha potuto riscontrare che esistono diversi racconti degli stessi fatti. A seconda di come gli eventi sono narrati, naturalmente, essi assumono significati differenti e, di fatto, la visione della storia che viene tramandata cambia radicalmente.

L’anima del lavoro è l’idea che, quindi, come sarebbe piaciuto a Nietzsche, non esistono fatti ma solo interpretazioni. Tuttavia il lavoro di Shawky non ha a che fare con una visione semplicisticamente relativista. Ricorrendo a diverse fonti storiche e culturali (dal Vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago, fino a fonti storiche arabe antiche e così via), l’artista rivela, dietro alla consueta narrazione storica delle crociate, una quantità di problemi politici ed economici, una serie intricata di questioni ben diverse dal “semplice” conflitto tra religioni.

Shawky traduce i testi antichi e le varie versioni in esperienza visiva, in materiale filmico. Il risultato è uno spettacolo di marionette pensato come una performance, in cui il museo intero diventa scenografia di uno spettacolo di cui il pubblico stesso si trova a far parte. Il risultato del lavoro è dunque una risultante, un punto di incontro, visivo, di molti diversi testi, letture e interpretazioni.

Tuttavia, seppure nel racconto di Shawky gli eventi storici sono affrontati dal punto di vista di altri frammenti di testi e testimonianze alternativi alle letture tradizionali, l’idea che guida il lavoro non è quella di trovare una nuova e definitiva lettura della storia che sia finalmente vera, in modo inoppugnabile. L’artista sembra piuttosto lasciar intendere che il quadro generale in cui s’inscrivono gli eventi storici è in realtà assai più complesso e variegato di quanto comunemente si crede.

Non si tratta perciò tanto di scegliere una verità conclusiva e definitiva, quanto di esercitare la nostra capacità di pensiero critico e di libertà di visione. Porre domande, aprire questioni, non accontentarsi di guardare le cose da un unico punto di vista.

In fin dei conti, l’arte contemporanea è tanto più bella e importante quanto più mette il fruitore nella condizione di imparare nuove visioni delle cose, permettendo di sperimentare nuovi modi di emozionarsi e di pensare.

Al di là delle proiezioni psicologiche delle nostre ombre, e oltre le letture storiche di parte, un’opera d’arte riuscita non ci consegnerà, allora, comode risposte con cui metterci l’animo in pace. Ma ci regalerà nuove domande.