È complicato fare i conti con una religione senza Chiesa, ma la soluzione non è costringere l’Islam a diventare quello che non è mai stato. Nelle moschee d'Occidente i musulmani imparano anche che la loro religione è plurale. Il problema delle seconde generazioni è quello di un doppio isolamento, sia dalla cultura islamica che da quella del paese in cui vivono, ma all'Islam italiano serve una leadership matura e potenzialmente alternativa a quella attuale.

Branca velate

Un confronto necessario. Occorre fare il primo passo, non giocare 'di rimessa'
Intervenire sul fenomeno delle migrazioni significa prevalentemente avere a che fare con necessità di base: alloggio, lavoro, salute... Le numerose e lodevoli iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati sono tuttavia, nella maggior parte dei casi, carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Si fa, cioè, semplicemente quel che c’è da fare, senza domandarsi troppo dove si stia andando. Si rimane in altre parole indifferenti, e quindi passivi, rispetto all’esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo, pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni frutti.

Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande, che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più. L’assistenza ai bisognosi è certo una buona cosa, ma davvero non abbiamo altro da offrire, oltre a un letto e a un pasto caldo? Duemila anni di Cristianesimo, l’ancor più antica eredità greca e romana, oppure le recenti e sofferte acquisizioni che abbiamo pagato a caro prezzo emancipandoci dai nazionalismi esasperati e dai furori ideologici del ‘900 sono un bagaglio già così poco “nostro” da impedirci di immaginare di poterlo almeno condividere con chi bussa alle porte d’Europa?

Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l’iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle richieste che ci verranno poste - quando fossero delle assurde pretese - ma se continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo “di rimessa” e resteremo fatalmente vittime dell’intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi, oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o rappresentativi, ma - com’è accaduto di recente nelle polemiche relative al crocefisso o al presepe - quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre miserie, senza alcun rispetto per i valori autentici di due grandi tradizioni religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e basata sull’ambiguità.

Le famiglie islamiche e la domanda educativa. Una sfida per la scuola pubblica
Incurante delle nostre pigrizie, la realtà nel frattempo si evolve e propone nuove sfide.
Quando, dopo la prima fase del processo migratorio che ha visto prevalere giovani maschi soli, si passa alle problematiche dell’educazione, significa che un sottile ma decisivo confine è stato superato. A porsi il problema della scuola per i propri figli non sono ormai più singoli individui in condizioni precarie. Poter mandare i propri figli a scuola significa aver prima creato una situazione di relativa stabilità di affetti, di lavoro, di posizione sociale ed economica.

Una società matura e responsabile non può trascurare i bisogni di questi nuclei familiari, anche perché essi rappresentano la parte più evoluta e stabile della gran massa degli immigrati e persino il più efficace anticorpo contro le possibili derive in fenomeni di marginalità e di devianza, compresa la criminalità e persino la militanza in gruppi eversivi. Offrire risposte adeguate alla richiesta di formazione e di educazione non è quindi affatto un lusso, ma primariamente un'opera di promozione umana e prevenzione sociale. L’ideale è certo che ciò possa avvenire nelle istituzioni scolastiche pubbliche, che dalla valorizzazione dei patrimoni culturali dei nuovi arrivati potrebbero addirittura trarre motivo di arricchimento, prendendo spunto ad esempio per ripensare insegnamenti e metodologie nel quadro della realtà sempre più pluralistica in cui sono inserite.

In mancanza di simili alternative, qualcuno può intraprendere la discutibile via del “fai da te”, fuori dagli ordinamenti vigenti, creando una sorta di società parallela o addirittura di corpo estraneo rispetto al Paese ospitante. La filosofia che ispira tali scelte, quand’anche fossero fatte in buona fede, rappresenta un pericolo per gli utenti di simili imprese e rafforza in essi la già troppo diffusa mentalità secondo la quale in Italia si può fare un po’ quel che si vuole, in attesa di qualche sanatoria... I casi di scuole islamiche sono tuttavia poco numerosi in Italia, mentre quasi un migliaio sarebbero ormai i luoghi di culto improvvisati, non riconosciuti come tali, spesso in assai precarie e poco dignitose condizioni, con problemi per certi versi analoghi.

Dopo averlo ignorato per anni ed anni, la politica si è accostata al fenomeno tardi, malamente e strumentalmente, senza davvero affrontarlo, perdendo l’ennesima occasione per sviluppare un dibattito serio a proposito di tematiche delicate e complesse, e senza tantomeno risolverlo, aprendo la porta a pseudo-soluzioni pasticciate ed ambigue di cui temiamo si dovrà pagare il prezzo in un prossimo futuro.

I giovani, tra senso di estraneità e sindrome da "parenti poveri"
Del tutto diversa è la situazione coi musulmani cosiddetti di seconda generazione. Nati nel nostro paese, o arrivatici molto piccoli, hanno frequentato le nostre scuole e si sentono italiani. Cercano le giuste modalità per restare fedeli al loro credo, senza rinunciare ad essere giovani come gli altri, vale a dire posti dalla loro stessa età in una posizione intermedia, tra le certezze rassicuranti di quando si è piccoli e dell’ambiente familiare da un lato e dall’altro le inquietudini tipiche di personalità che si stanno ancora formando e le prospettive ancora poco chiare relative al proprio futuro (scelta del corso di studi, sbocchi professionali, costituire una propria famiglia...): il tutto condito con le normali tensioni generazionali che portano sempre gli adolescenti a dover faticosamente trovare un punto d’equilibrio tra il semplice e passivo recepimento di quanto hanno ricevuto dai genitori e la personale appropriazione e rielaborazione di tale patrimonio.

A queste condizioni, che essi condividono coi loro coetanei, si aggiunge il fatto che i principi e i valori della tradizione culturale e religiosa delle loro famiglie non corrispondono esattamente a quelli diffusi attorno a loro, ma vengono anzi percepiti, se non estranei e incompatibili, almeno come problematici, e si vanno caricando di ulteriori valenze negative in forza di avvenimenti che stanno interessando il mondo intero e che sembrano indirizzarlo pericolosamente verso una prospettiva di scontro.

Nessuno sembra in grado di farsi carico delle loro esigenze: il linguaggio e l’atteggiamento di coloro che guidano i centri islamici sono inadeguati a ragazzi nati o comunque cresciuti in Italia, specialmente per quanti di loro hanno frequentato le nostre scuole e si sentono ormai più simili ai propri compagni italiani che ai loro cugini d’oltremare. Seguendo le orme dei padri, essi spesso scelgono specializzazioni di tipo tecnico-scientifico (medicina, ingegneria...) e rimangono pertanto sguarniti sul versante umanistico. Cioè li rende facili vittime di due fenomeni: un’appartenenza alla cultura italiana da ‘parenti poveri’ da un lato e dall’altro una scarsa consapevolezza della stessa civiltà islamica, della quale resterebbero paradossalmente i legittimi detentori coloro che (spesso altrettanto sprovveduti) con meno disponibilità, impegno e successo si sono inseriti nel paese che li ospita o che hanno aderito all’islam tardi e talvolta in forma bizzarra.

Moschee e imam. Un Islam catacombale non serve a nessuno
Capisco le difficoltà dei pubblici amministratori che si trovano a dover fare i conti con una religione senza Chiesa, in cui le cariche e le funzioni religiose obbediscono a regole non scritte, di cui possono approfittare personaggi senza scrupoli, vantando di rappresentare una comunità che non li ha scelti e talvolta si trova a subirli. Non credo che la soluzione sia quella di costringere l’Islam a diventare quello che non è mai stato e che qualche interessato suo esponente desidererebbe diventasse, al fine di arrogarsi il diritto di rappresentarlo in toto, incassando ruoli simbolici o addirittura finanziamenti pubblici (il famoso 8 per mille).

Non va però dimenticato che nelle moschee d’Occidente i musulmani imparano anche che la loro religione è plurale, trovandosi a pregare accanto a correligionari di diversa etnia e talvolta persino di confessione diversa (es. gli sciiti) e sono meno disposti a tollerare forme di tutela di sedicenti imam e improvvisati leader. Per loro fortuna, nessun Ministero degli affari religiosi si intromette in queste faccende dalle nostre parti, mentre è la regola nei loro paesi d’origine, con esiti devastanti sia per lo stato che per la religione.

Organi di direzione e di gestione trasparenti, bilanci pubblici, forme di partecipazione e di verifica della rappresentatività sono le forme che ogni democrazia dovrebbe incoraggiare se non imporre a qualsiasi forma associativa per assicurarne il corretto funzionamento. L’islam carbonaro delle catacombe non serve né a loro né a noi.

La questione della formazione degli imam è molto delicata. Non si vede, infatti, quale istituzione possa farsi carico debitamente della formazione di ministri del culto di altre fedi. Ma anche a questo proposito la mancanza di iniziative ci porta a subire l’altrui improvvisazione. In Italia non è ancora successo, ma in altri paesi europei vi sono istituti di studi islamici superiori finanziati e forniti di docenti da parte di questo o quel governo arabo, che vedono in prima fila tra gli sponsor paesi petroliferi di ben scarsa apertura mentale. Questo tipo di colonizzazione dell’Islam nostrano non promette nulla di buono.

Non si vede perché debba essere impossibile promuovere qualche corso di studi superiori in storia delle religioni o religioni comparate che veda tra i suoi docenti e allievi anche dei musulmani. Non si tratterebbe, ovviamente, di istituire scuole per imam, ma si contribuirebbe almeno alla formazione di una leadership islamica matura, potenzialmente alternativa a quella attuale, dove prevalgono spesso italiani convertiti dal burrascoso passato (militanti di gruppi extraparlamentari di destra o di sinistra) che ancora si manifesta nei metodi, quando non nei contenuti della loro propaganda, o bizzarri imprenditori del sacro di stampo più o meno esoterico, per finire con molti imam fai-da-te, scarsamente preparati nelle scienze islamiche, poco o per nulla informati della cultura del paese che li ospita, talvolta persino unicamente capofila di gruppi d’interesse familiare o compari dello stesso villaggio, che dovrebbero guidare delle comunità e invece le sfruttano e, quel che è peggio, le mantengono nell’isolamento e nell’arretratezza.