Anche questo 8 marzo è passato, col carico di feste, polemiche e mimose che ogni anno inevitabilmente si porta appresso. In tale ricorrenza trova spesso espressione un'emozionalità volta, in via principale, a rimarcare discriminazioni normativamente ormai inesistenti e culturalmente sempre meno evidenti. Sì che da occasione utile per una costruttiva riflessione fondata su dati concreti, ineludibile base di ogni approfondimento volto a risolvere problemi ancora presenti, la cosiddetta festa della donna si traduce, invece, in un concentrato di rivendicazioni variamente declinate, di cui le "quote rosa" rappresentano la manifestazione più diffusa.

La data richiamata avrebbe potuto offrire lo spunto per qualche considerazione in materia di diversità, non di genere necessariamente. In detta giornata, si sarebbe potuto riflettere sulla circostanza che la realtà attuale, sempre più globalizzata, richiede di essere affrontata sotto quanti più punti di vista: le sfaccettature che essa esprime attraverso i suoi protagonisti rappresentano i modi in cui si atteggia un'umanità oltremodo complessa e variegata. Da ciò discende l'importanza che la valorizzazione delle diversità - tutte indistintamente - riveste in ogni consesso in cui debba essere operata una valutazione ponderata di interessi concorrenti, ove si tratti di "cosa pubblica" specialmente: è da risorse differenti che la collettività nel suo insieme può essere arricchita.

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Poste tali premesse, nella giornata in cui le donne vengono "celebrate", queste ultime avrebbero potuto affrontare l'argomento delle disparità in una prospettiva più ampia: sarebbe stato utile spiegare, innanzi tutto, quale sia la causa a fondamento della circostanza che, tra i molteplici apporti esperienziali di cui la società ha bisogno, a quello conferito dal genere femminile debba essere riconosciuta una maggiore rilevanza e dunque, la meritevolezza di una tutela specificamente declinata mediante la previsione di apposite quote. Come qui, tra l'altro, ad esempio si afferma (commento al criterio applicativo, 1.C.1, lett. g), è la presenza di soggetti che abbiano un'esperienza internazionale e che appartengano a diversi generi, fasce di età e con una differente anzianità di carica ciò che garantisce una maggiore diversificazione nel consesso di cui ivi si tratta e, con essa, indubbi benefici in termini di valore aggiunto: questa conclusione può, già solo intuitivamente, ritenersi valida in ogni ambito di riferimento.

Di conseguenza, la prevalenza di una categoria rispetto ad altre, tra quelle sopra indicate, rischia di rendere meno efficace un risultato tanto più assicurato quanto più realizzato mediante contributi effettivamente differenziati. Dunque, nella giornata che alle donne viene dedicata, anziché ribadire solo ed esclusivamente la pretesa che si intervenga in via legislativa al fine del riequilibrio della rappresentanza di sessi diversi, mediante l'imposizione di apposite "quote rosa" nei contesti in cui non siano ancora previste, si sarebbe potuto fare di più e meglio nell'interesse di tutti. L'8 marzo avrebbe così potuto essere proficuamente finalizzato alla richiesta di una più estesa e adeguata valorizzazione di ogni differenza - non solo quella di genere preferenzialmente - funzionale alla migliore comprensione e alla conseguente rappresentazione di una realtà sempre più sfumata. Ma non lo si è fatto, continuando, invece, a reclamare percentuali prefissate: senza considerare, peraltro, che la previsione per via autoritativa della prevalenza di un criterio di scelta orientato al femminile, rispetto agli altri sopra menzionati, può produrre effetti distorsivi e tradursi in dubbi risultati.

Si sarebbe potuto, ad esempio, osservare che negli ambiti in cui le riserve di genere siano già operanti la discrezionalità nell'organizzazione dei fattori della produzione, rimessa alla determinazione di colui che dell'impresa si assume il rischio, l'imprenditore appunto, risulta notevolmente limitata: criteri di scelta imposti da un soggetto terzo, qual è il legislatore, non sono certo funzionali a quella libertà di iniziativa che, oltre a essere costituzionalmente garantita, costituisce il contrappeso alla responsabilità che l'impresa stessa comporta. Si sarebbe potuto altresì valutare, da un lato, che l'imposizione "quantitativa" di esponenti di una certa categoria non sempre è conciliabile con l'esigenza di scelte "qualitative" che in ogni realtà è sempre più sentita, al di là di qualunque appartenenza; dall'altro, che la discriminazione inversa operata nei riguardi di altre categorie forse ancor meno rappresentate, in mancanza di un fondamento razionale volto a giustificarla, resta privo di senso. A tale riguardo, nella data dell'8 marzo le donne avrebbero forse dovuto fare ricorso, più che ai numeri percentuali nei quali le "quote rosa" trovano espressione, in altri numeri comunque importanti che di recente sono stati presentati (v. qui). Si tratta dei risultati emersi nell'ambito di una ricerca svolta dall'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Essi dimostrano, con riferimento al momento dell'accesso al lavoro, che su 71,9% azioni discriminatorie rilevate, il 47,8% riguardano l'età , il 37,7% la razza e l'etnia, il 5,6% la disabilità, il 6,5% il genere. Appare evidente come le donne non siano le vittime principali delle disparità di trattamento concretamente verificate. Dunque, se si parte dal presupposto che le differenziazioni debbano essere attenuate laddove i divari siano più marcati, appare chiaro che le donne non siano le prime a dover essere considerate nell'ambito di normative volte al riequilibrio della rappresentanza.

L'8 marzo, come si diceva, è stato dedicato alla denuncia delle disuguaglianze riguardanti le donne: non normative di certo, dato che l'art. 3 della Costituzione esclude la presenza nel nostro ordinamento di disposizioni che sanciscano disparità di trattamento e che le battaglie condotte nel tempo a fronte di prescrizioni veramente discriminatorie - in quanto contrarie al principio costituzionale suddetto - hanno determinato l'abolizione delle stesse. Dunque, stante un ambiente normativo favorevole all'uguaglianza, la ricorrenza citata avrebbe potuto costituire l'occasione per riflettere su quel processo di progressiva evoluzione che nel tempo sta portando le donne – al di là di previsioni di apposite quote – a compiere scelte professionali e di vita che colmino progressivamente ogni differenza. Le circostanze in forza delle quali le esponenti del genere femminile talora non ottengono risultati allineati a quelli dei colleghi dell'altro sesso avrebbero meritato di essere compiutamente considerate (qui se ne parla), sì da effettuare al riguardo gli interventi più adeguati. Infatti, possono essere vari i piani sui quali operare perché una reale consapevolezza circa la situazione "femminile singolare" venga maturata: di certo, le "quote rosa" non hanno alcuna utilità al riguardo. Ad esempio, la convinzione di alcune donne di non essere predisposte per una certa materia o la rassegnata aspettativa di fallimento delle azioni da esse intraprese in determinati settori – la c.d. profezia che si auto-avvera (self-fulfilling prophecy, Merton) e l'incapacità appresa (learned helpless, Seligman), qui citate – devono essere affrontate con strumenti alternativi alla mera rivendicazione di percentuali predefinite.

La progressiva cognizione e accettazione delle proprie fragilità, veri ostacoli a un'effettiva e piena realizzazione personale e, dunque, anche professionale, è la chiave di volta. È sugli atteggiamenti che inducono a desistere dallo sforzo di superare difficoltà di apprendimento o operative per il raggiungimento di traguardi non reputati alla propria portata che occorrerebbe, ad esempio, intervenire. Peraltro, per inciso, va rilevato che tali atteggiamenti vengono talora favoriti da insegnanti non adeguatamente preparati, come qui si riscontra: dunque, anche una più idonea formazione/sensibilizzazione di questi ultimi rispetto al tema delle diversità di genere potrebbe produrre apprezzabili risultati. Essa, infatti, sin dagli anni scolastici, concorrerebbe a consentire agli esponenti di ambo i sessi di valutare l'inconsistenza di eventuali preclusioni pregiudiziali rispetto alla rispettiva evoluzione personale e professionale, rendendoli liberi da tradizionali convinzioni culturali riguardanti le propensioni del genere di appartenenza. Sul fronte educativo, il superamento degli stereotipi tradizionali richiederebbe la necessaria valorizzazione, da parte dei soggetti titolari di funzioni formative, genitori in primis, delle risorse personali di chi sia affidato alle loro cure, come da questa ricerca, tra le altre, si evince. Evidenziare l'importanza dello sforzo e della perseveranza, come strumenti necessari al superamento di difficoltà e limiti che si incontrano costantemente, farebbe sì che i ragazzi siano portati a concentrarsi sui propri talenti, anziché su inconsapevoli condizionamenti, e si rendano così più disponibili a esplorare ambiti che consentano di mettere alla prova le capacità personali. Dunque, le differenze di genere attualmente ancora esistenti potrebbero essere superate anche avendo riguardo alle circostanze e ai rimedi sopra indicati: ciò in aggiunta ad appositi strumenti di welfare volti a favorire la partecipazione delle donne al mondo del lavoro, agevolando un'adeguata conciliazione con altre esigenze, familiari e non solo. È così che la cultura del cambiamento può essere assecondata, seguita e supportata, non ex lege mediante le "quote rosa", come si pretenderebbe.

Quest'anno, le discussioni cui di solito la c.d. festa della donna dà spunto sembrano destinate a durare anche oltre la data fissata, poiché in queste ore si decide se nella proposta di riforma della legge elettorale troveranno spazio le disposizioni volte ad assicurare la parità di rappresentanza nelle candidature di lista e dunque, visto il meccanismo "bloccato", percentuali di eletti predefinite in base al genere. Non si entra nel merito della questione, di cui già qui si scrisse e in ordine alla quale possono avanzarsi alcuni dubbi in punto di diritto (qui esposti). Ci si limita a osservare come le donne, trasversalmente facenti parte di vari partiti, che nelle settimane scorse hanno sostenuto la necessità di quote di genere con iniziative di pubblica rilevanza, non abbiano in esse coinvolto alcun collega uomo, salvo porre in qualche modo rimedio solo nella giornata prevista per il voto del provvedimento. Anche esponenti dell'altro sesso avrebbero forse gradito l'invito a rendersi partecipi attivamente di quanto necessario a sostenere la predetta istanza. Ha, invece, prevalso quella contrapposizione tra generi diversi che le donne promotrici di certe "battaglie" stigmatizzano quando a rendersene artefici siano, invece, appartenenti al sesso opposto. Modalità comportamentali analoghe a quelle che negli altri si vorrebbero debellare, oltre a essere incoerenti – caratteristica evidentemente molto di moda di questi tempi - rischiano di depotenziare la causa posta a fondamento dell'azione intrapresa, nonché di minare la credibilità di chi la conduce.

Occorrerebbe che a ciò si conferisse la dovuta importanza, quando si tratta di rivendicare diritti o anche solo aspettative di carattere diverso. Considerato che nel nostro ordinamento l'opportunità di candidarsi è aperta a tutti, chi si indigna per la minore presenza femminile nella realtà politica attuale ipotizza forse che essa dipenda dalla circostanza che gli uomini non intendano cedere il potere in senso proprio - quello politico appunto - ad esponenti del sesso opposto. Se così fosse, evidentemente il problema principale non sarebbe la parità di genere nelle liste elettorali, bensì lo spessore personale, oltre che professionale di chi opera nelle istituzioni attualmente. Ciò detto, a maggior ragione ci si chiede perché su questo aspetto non sia stata più specificamente appuntata l'attenzione delle donne, delle esponenti politiche specialmente, nella giornata a esse dedicata. Anziché per la richiesta di quote predeterminate, che di per sé non garantiscono alla collettività prestazioni migliori e, quindi, più idonei risultati, esse avrebbero potuto battersi affinché criteri di selezione chiari, precisi e razionali, in sintesi e in buona sostanza trasparenti, potessero costituire finalmente premessa e fondamento di scelte riguardanti posti di rilievo e funzioni delicate.

Selezioni compiute con le modalità indicate, in quanto motivate sulla base di principi puntuali, potrebbero essere vagliate dalla cittadinanza nel suo complesso, concorrendo all'accountability di chi le ha effettuate, se del caso. Questo sarebbe stato l'adeguato oggetto di una battaglia volta finalmente non a rivendicare una parità solo teoricamente declinata, ma a valorizzare, quali parametri essenziali di ogni giudizio, merito e competenza al di là del genere di appartenenza: detti parametri assicurano di per sé un effettivo equo trattamento, eliminando ogni diseguaglianza in qualunque ambito applicati. Invece, ancora una volta nella giornata dell'8 marzo ha prevalso la richiesta di risultati percentualmente prefissati che, nel mentre fanno sì che una sola delle categorie sottorappresentate venga privilegiata rispetto ad altre ancor più svantaggiate, come sopra accennato, non conferiscono adeguata importanza al cardine essenziale intorno al quale scelte attinenti la "res publica", in special modo, dovrebbero ruotare: quel valore personale che solo studi adeguati e preparazione professionale, oltre a caratteristiche intrinseche all'individuo, possono assicurare.

L'espressione "similia cum similibus", se pure nell'ambito della "cura" ha omeopaticamente una qualche consistenza, non è rimedio adeguato in altri contesti. Dunque, il "male" rappresentato da spartizioni di incarichi effettuate sulla base di una qualche specifica appartenenza a cerchie particolari – da molti ritenuto al contempo origine, causa ed effetto del declino nazionale attuale - non potrà essere sconfitto mediante un rimedio similare: l'appartenenza, ancorché a un sesso predefinito anziché a un circolo diverso, non può costituire inizio e fine di ogni criterio di giudizio. Il rinnovamento tanto richiesto, ai vertici delle istituzioni soprattutto, necessita di doti, capacità e talenti che non possono essere di certo garantiti in virtù della ricomprensione in quote determinate sulla base di astratte ed arbitrarie percentuali di riferimento: esso finisce per restare una parola vuota, se cambia l'oggetto cui si appunta, ma non muta il meccanismo sottostante. Il rischio che si corre perseguendo la strada delle quote è che si finisca per continuare ad attribuire incarichi rilevanti prescindendo dalla consistenza e dalla preparazione di chi è chiamato a occuparli.

Gli automatismi sono antitetici a qualunque principio di selezione, quanto mai necessario in questo momento perché il soggetto munito del potere di scelta assegni la persona che reputa giusta a ogni posto che conta, assumendosi le responsabilità conseguenti. Le "quote rosa" non garantiscono tale risultato, rappresentando esse stesse l'estrinsecazione di un automatismo obsoleto, ma spacciato per una conquista nuova. Un problema non si risolve, se non cambia il metodo che l'ha originato: continuando a pretendere quote di risultato, il risultato non sarà diverso da quelli finora ottenuti. Forse è davvero il tempo di cambiare verso: forse logica, anzi "logiche", soprattutto.