Paolo Giordano su Israele dà voce al silenzio e per questo va ringraziato
Diritto e libertà

Da dopo il 7 ottobre non sono stato capace di scrivere sulla guerra che ne è scaturita opinioni che condividessi davvero. Qualsiasi cristallizzazione di pensieri in parole mi appariva parziale: non nel senso di partigiana, ma nel senso di incompleta. C’era sempre una reticenza, un’omissione, una inadeguatezza insanabile. E parallelamente c’era la più colpevole delle reticenze che scaturiva proprio dal non esprimersi; l’ignavia.
Nessuno ha mai preteso mie opinioni, evidentemente: ma ogni giorno mi sono chiesto quanto la mia mancanza di espressione fosse una nobile aspirazione alla complessità e quanto invece più prosaico timore del contesto, un rigetto istintivo di schieramenti a fronte di una enorme crisi umanitaria e dello sprofondare nel baratro di una regione.
Saul Bellow scriveva che su Israele non pensava con il cervello ma con il sangue, ma l’impressione è che chiunque si esprima su Israele e sulla Palestina pensi con il sangue, proprio o altrui. Che su Israele non esistano opinioni ma solo sentimenti, per lo più di odio e, minoritariamente, di disperata e risentita appartenenza. Qualsiasi considerazione è colpevole, qualsiasi omissione è colpevole, come per nessun’altra questione mondiale prima di ora.
Non siamo neanche più alla criminalizzazione delle opinioni, siamo alla loro carcerazione preventiva. Un “Panopticon” immondo in cui ogni valutazione è meritevole di essere condannata ancora prima di essere espressa. Comprese queste righe, perché la ragione e il torto ci sono; come possono non esserci a fronte di decine di migliaia di morti, di milioni di vittime in senso più ampio, del più grande progrom dalla seconda guerra mondiale e del disgustoso traboccamento di antisemitismo? E se di ragioni e di cause ancora non ho scritto dopo tutte queste parole allora ho scritto invano, e se non sono parte della soluzione di fronte alla tragedia allora sono parte del problema.
In questo lungo periodo in cui mi sono sentito sempre più critico e disperato su Israele ma mai meno simpatizzante per gli ebrei, nella consapevolezza che anche questa posizione sarebbe di per sé stata considerata da rigettare, del mio essere additabile contestualmente come “nazi-sionista” (o anche solo sionista; il significato ormai è lo stesso) e antisemita di fatto, perché non difenderei gli ebrei che si difendono, e non distinguerei abbastanza la civiltà dai tagliagole, ho osservato i miei bias filo-ebraici.
Non li ho respinti, non li ho sminuiti; ho anzi continuato a sentire, ancora prima che pensare, che la mia identità di non ebreo sarebbe stata per sempre con l’ebraismo percepito. L’ultra-borghese oppressore, il figlio bastardo dell’Occidente, il frutto velenoso del colonialismo. Che se aveva ragione Sartre nel dire che è l’antisemita che crea l’ebreo e non viceversa allora non posso non dirmi ebreo. Ma questo è il mio piccolo orizzonte emotivo, l’arruolamento di una miniatura dell’ebraismo a una causa occidentale in cui la mia bolla si identifica, il mio pensiero sgradevole in una vita assorta in tutt’altro, a fronte di una tragedia umanitaria immane, in mezzo a colpe e crimini immani.
E non ho trovato in questo anno “post 7 ottobre” parole in cui rispecchiarmi più fedelmente di quelle scritte da Paolo Giordano sul Corriere: “la reticenza su questa guerra ha a che fare con la speranza. O meglio, con la sua assenza. Perché si può scrivere dall’interno della più cupa disperazione, e forse la migliore letteratura è stata prodotta così, ma non si può scrivere disperando. L’assenza di speranza ammutolisce, toglie senso all’azione stessa dello scrivere”.
Ciò che ho potuto opinare in poche conversazioni private a fronte di questa guerra è che non spero in nulla. Non ho speranze per Israele, che credo condannato dalla demografia e dalla propria spirale identitaria; non ho speranze per la virtuosa costruzione di uno Stato palestinese che mi appare impossibile; non ho speranze per i disperati di Gaza, né spero che dall’immane numero di vittime possa sorgere un domani migliore; non ho speranze che si possano debellare da quella regione l’odio e il fondamentalismo; non ho speranze verso un dibattito pubblico intossicato, sulla questione, in modo irreversibile.
In questo senso continuo a sentire di non aver nulla da dire sulla “questione israeliano-palestinese” e sono consapevole di aver speso molte parole solo per parlare di me, come sentimento privato e, al massimo, di noi intesi come non-dibattito pubblico. Ma tra questo me e questo noi sento anche di dover ringraziare Paolo Giordano per aver dato, per così dire, voce al silenzio e una coscienza alla reticenza, ben sapendo che nessuno scritto sarebbe mai stato completo, adequato o semplicemente non osceno.
