Nato miliardario, residente a Manhattan, cresciuto nello sfarzo: come candidato anti-establishment, Donald Trump non è altro che una grande messinscena, peraltro delle meno credibili. Eppure le sue sparate funzionano alla grande con quegli americani che vogliono semplicemente votare 'contro'. Perché?

Tapparini Trump

Qualcosa si muoveva già nel 2000, quando nelle primarie presidenziali repubblicane il candidato sostenuto dall’establishment del partito, il governatore del Texas George W. Bush, era inizialmente inciampato nel più scomodo dei maverick.

Il settimanale Rolling Stone aveva proposto al giovane scrittore anticonformista David Foster Wallace di scegliersi un candidato alle primarie di uno dei due partiti e seguirlo on the road per una settimana per scrivere un reportage; e lui aveva scelto di salire sul bus dell’anziano senatore repubblicano John McCain. Era lui, in quel momento, la rockstar della politica americana. E lo era in quanto alternativa anti-establishment.

Il suo programma era imperniato sulla proposta di una grande riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali, volta a ridimensionare il potere delle grandi lobby. I suoi comizi si aprivano con la musica di “Star Wars”, quasi a suggerire che Bush fosse un Dart Fener e lui un Luke Skywalker della politica (pare anche che in privato chiamasse scherzosamente “la Morte Nera” la macchina elettorale dell’avversario). La sua avventura durò poche settimane, ma suscitò un entusiasmo sintomatico. Qualcosa si muoveva.

E quel qualcosa si muoveva ancora di più otto anni dopo, quando, nelle primarie presidenziali per il dopo-Bush, John McCain riuscì dove otto anni prima aveva fallito: batté il candidato più ricco e più gradito all’establishment del partito, che stavolta aveva il volto di Mitt Romney. Simmetricamente, nelle primarie democratiche, la candidata dell’establishment, Hillary Clinton, da tempo considerata la favorita al limite della predestinazione, venne battuta dal giovane outsider Barack Obama.

“Che il 2008 sia semplicemente un anno strano”, si chiese l’opinionista neoconservatore Bill Kristol, “o sta forse accadendo qualcosa di grosso? Stiamo assistendo ad uno dei periodi di risvegli politici e culturali dell’America, a una delle nostre occasionali, quasi compulsive reazioni democratiche alla distanza, percepita come eccessiva, tra la gente e i suoi “establishment”? Risvegli di questo genere possono essere anche improvvisi, e possono anche arrivare su più fronti contemporaneamente. Spesso sono accomunati da un tema ricorrente, ossia la richiesta popolare: “piantatela di parlare in nostro nome, e cominciate un po’ ad ascoltarci”.

Alla fine di agosto, a poche ore dalla convention nazionale repubblicana in Minnesota, McCain spiazzò tutti annunciando che avrebbe candidato come sua vice la governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. Si è spesso detto che la scelta di quel personaggio, troppo estremista e troppo naïf, dilapidò il suo appeal nei confronti dell’elettorato più indipendente. Le indagini demoscopiche di quei mesi, però, raccontano un’altra storia.

McCain capì che il desiderio di rottura era aumentato al punto da rendere insufficiente la sua vecchia fama di maverick. E così estrasse dal cilindro questa small town girl cinque volte mamma, già sindaco di una oscura cittadina di novemila anime (orsi esclusi), sposata con un mezzo esquimese campione di corse con la motoslitta. La quale era riuscita a farsi eleggere governatrice in aperto contrasto con il marciume del “sistema” (era stata a capo della Commissione Energia dello Stato – l’Alaska è ricca di petrolio – e si era dimessa per protesta con la corruzione che regnava tra i boss locali del partito).

Troppo spesso si dimentica che, a quel punto della campagna, prima che il fallimento Lehman cambiasse tutto, McCain schizzò in testa nei sondaggi. Subito dopo la convention staccò Obama proprio tra gli elettori indipendenti, e vide aumentare la sua popolarità tra gli elettori democratici che si qualificavano come più centristi. Un opinionista del Los Angeles Times sentenziò: “la riforma moralizzatrice promessa da Obama è come cambiare le lenzuola in un bordello; la Palin è una che il bordello vuole raderlo al suolo”.

Notoriamente la cosa non funzionò, e alla Casa Bianca andò quello del cambio delle lenzuola. Ma a quel punto quel qualcosa ha preso a muoversi in modo più esteso e più evidente. Sin dalla prima votazione tenutasi sotto Obama presidente, nel gennaio 2010: le suppletive in Massachusetts per riassegnare il seggio senatoriale del defunto Ted Kennedy. La vittoria, in un feudo democratico, del repubblicano Scott Brown, sconosciutissimo avvocato che si era fatto campagna elettorale ostentando uno status di "uomo qualunque" che pareva più conseguenza che non causa del fatto che nessuno lo prendeva sul serio, segnò il primo episodio di quella crisi di rigetto contro la presidenza Obama che di lì a poco si sarebbe organizzata ed incanalata nel movimento dei cosiddetti Tea Party.

Sui Tea Party si è detto e scritto molto. Forse ora vale la pena di riflettere su quanto essi abbiano di fatto prodotto esiti normali. Una partecipazione al procedimento delle primarie per la selezione di candidati più convinti di altri della necessità di ridurre la pressione fiscale e la spesa pubblica. Campagne elettorali pur sempre basate sulle tradizionali fisiologie del fundraising, dell’acquisto di spazi pubblicitari, della difesa della reputazione. Nulla di particolarmente rivoluzionario.

Alle primarie presidenziali del 2012 quell’area non è riuscita a compattarsi su un unico nome, e quella dispersione ha aperto la strada alla candidatura perdente di quello stesso Mitt Romney che già quattro anni prima era stato bocciato in quanto troppo establishmentarian.

Il paradosso è che, alle primarie di quest’anno, i pretendenti che potremmo considerare un prodotto dei Tea Party hanno finito per rappresentare l’ultimo argine dietro al quale il partito sta tardivamente cercando riparo. Sia l'elezione al Senato di Marco Rubio nel 2010 che quella di Ted Cruz nel 2012 si devono al sostegno di quel mondo, contro candidati di establishment. Ma quest’anno le loro candidature si sono imprevedibilmente ritrovate a fare da alternativa “normale” contro quella, incommensurabilmente più anomala, di Donald Trump.

Come populista, come portavoce della rabbia di un ceto medio impoverito e poco istruito, di persone sempre meno propense a vedere il cambiamento e il libero mercato come fonte di opportunità e sempre più inclini a considerare l'immigrazione come una invasione dalla quale difendersi, Trump è un fake. La sua è una messinscena. Nato ricco e divenuto straricco, residente in uno sfarzoso grattacielo di Manhattan intitolato a suo nome, egli appartiene in realtà a quella stessa casta che i suoi elettori tanto detestano.

L’estremismo reazionario politicamente scorretto che egli ostenta, alternandolo a fughe “a sinistra” rispetto al credo tradizionale di un partito al quale a malapena appartiene, ha poco o nulla a che vedere con le sue convinzioni ed ha invece molto a che vedere con il suo fiuto per la manipolazione dei media. Trump ha avuto una intuizione determinante: ha capito che quel qualcosa, quella frustrazione, quel disincanto, si è talmente acutizzato da far sì che per vincere non occorra più dare risposte: basta dare voce al qualcosa.

I Tea Party proponevano una ricetta ideologica e non sempre coerente, ma pur sempre un programma chiaro. Con Trump assistiamo ad un cambiamento sostanziale. Nessun programma preciso e nessuna risposta concreta. Bastano le provocazioni, le boutade. Sempre più gente ha, più che altro, una voglia incontenibile di “votare con il dito medio alzato”. E un provocatore disposto ad interpretare quel dito medio è un prodotto troppo ghiotto perché i media se lo lascino sfuggire.

La visibilità che egli ha ottenuto in questo modo, pur costandogli la peggior reputazione che un candidato alla Casa Bianca abbia avuto negli ultimi decenni, ha superato quella che una pletora di finanziatori e l’appoggio del partito avrebbero potuto garantire al più solido dei frontrunner. Qualcuno ha calcolato che, se Trump avesse pagato come inserzionista l'esposizione mediatica che con le sue provocazioni ha ottenuto gratuitamente, gli sarebbe costata qualcosa come due miliardi di dollari.

In principio questo cortocircuito è stato sottovalutato dall’establishment repubblicano. Trump faceva capolino nelle campagne elettorali presidenziali da più di 15 anni, apparentemente più per diletto che altro, e non era mai arrivato da nessuna parte: perché stavolta sarebbe dovuta andare diversamente? E così nulla è stato fatto per fermarlo.

Ma questa inerzia dei vertici lo ha di fatto sdoganato agli occhi della base. Se una pietanza sta sul menu significa che è commestibile, e che non c’è nulla di male a volerla assaggiare. Ed ecco che il candidato fake ha cominciato a raccogliere la slavina di consensi che ora nessuno riesce più ad arginare.

I suoi elettori non sanno che cosa pensa davvero e che cosa realmente farebbe, se eletto. Ma il dramma è che sanno di non saperlo, e non se ne curano.