Salman Rushdie grande

Salman Rushdie è stato ieri accoltellato negli Usa da un autoproclamato e volenteroso boia, incaricatosi di eseguire la sentenza di morte pronunciata dell’ayatollah Ruhollah Khomeini oltre trentatre anni prima, nel febbraio del 1989, dopo la pubblicazione de I Versetti satanici, il romanzo considerato blasfemo dalla suprema autorità politica e religiosa della Repubblica islamica iraniana.

Da quel momento, fino a ieri Rushdie ha vissuto all’ergastolo della paura, in un regime personale di protezione, ma anche di privazione. Intellettuale rispettato, ma anche scandalo rimosso, icona della libertà di pensiero, ma anche testimone imbarazzante del rapporto malato ed equivoco tra le democrazie dell’Occidente e l’islamofascismo, che proprio con il caso di Rushdie, molti anni prima dell’11 settembre del 2011, si annunciò come una minaccia politica globale.

Fin dall’inizio di quella vicenda che apparve assurda, ma che semplicemente anticipò quanto in seguito – da Theo Van Gogh a Charlie Hebdo – l’Occidente avrebbe vissuto impreparato e incredulo, Rushdie fu oggetto di un duplice occultamento. Fu nascosto ai suoi potenziali assassini, ma fu anche nascosto all’opinione pubblica occidentale come caso esemplare, come paradigma di un destino verso cui l’Occidente era incamminato. Insomma, la protezione di Rushdie da una parte e la rimozione del significato epocale della sua vicenda dall'altra.

Ecco un piccolissimo esempio, di cui sono stato piccolissimo protagonista: risale al 1995, quando nel sesto anniversario della fatwa di Khomeini il Partito Radicale e l’Associazione Nessuno tocchi Caino promossero una campagna per il riconoscimento della cittadinanza onoraria a Salman Rushdie da parte delle principali città italiane. Allora io ero consigliere comunale a Torino, e presentai una mozione in questo senso. Venne considerata inopportuna e imprudente e non venne approvata.

Anzi, di più, venne considerata provocatoria come, in fondo, inutilmente provocatoria si presume fosse giudicata dalla maggioranza dei miei colleghi consiglieri comunali anche la pubblicazione de I Versetti satanici, una sfida gratuita e tutto sommato rinunciabile alla suscettibilità islamista. Così, in mezzo a tanti uomini illustri e campioni della lotta per la libertà che il Comune di Torino gratificò della cittadinanza onoraria – da Walesa a Sacharov, da Mandela al Dalai Lama – non compare il nome di Salman Rushdie. 

Gli eventi successivi hanno dimostrato quanto vano e suicida sia stato il tentativo di trovare un equilibrio tra la difesa della libertà di pensiero e la promozione dell’autocensura religiosamente corretta, cioè di negoziare un appeasement che riconoscesse, se non la legittimità, la forza della pretesa islamista di istituire una sorta di scriminante religiosa ai limiti alla libertà di parola. Negli anni seguenti e fino ai giorni nostri si è girato sempre a vuoto attorno a questo punto, cioè all’equivoco che occorresse scongiurare una guerra di religione con l’Islam, quando al contrario occorreva riconoscere, combattere e possibilmente vincere una guerra politico-ideologica, che il fronte islamista, nelle sue diverse declinazioni, aveva deciso di militarizzare in senso terrorista, e che non riguardava la fede in un Dio piuttosto che in un altro, ma due modelli politici alternativi di rispetto o repressione delle libertà umane.

Tutto questo era già chiaro a qualcuno oltre trent’anni fa. A moltissimi non è chiaro neppure oggi, quando in barba all'intransigentismo religioso l'islamismo ha alleanze politicamente molto trasversali. Chissà che si ricorda dove, dopo il massacro di Charlie Hebdo, si tenne una manifestazione di un milione di persone contro i massacrati e non contro i massacratori? Nel protettorato islamista ceceno, nel cuore della Russia putiniana, retto dal principale alleato politico-militare del Cremlino, l'islamistissimo Ramzam Kadirov.