Vent’anni di terrore putiniano raccontati da Akhmed Zakayev
Diritto e libertà
Case sventrate. Corpi ammassati lungo le strade, le mani legate dietro alla schiena. Fosse comuni. Stupri come arma di guerra. Deportazioni. Obiettivi civili colpiti indiscriminatamente. Città rase al suolo… È lo scenario pressoché quotidiano cui siamo costretti ad assistere e che gli ucraini subiscono quotidianamente da oltre 4 mesi. Ma è lo stesso, identico, scenario che vent’anni fa i ceceni hanno subito a loro volta ma a cui noi, diversamente, non abbiamo assistito. Perché non lo abbiamo voluto vedere.
Oggi si discute sul se e sul come intervenire per difendere l’Ucraina, ché significa difendere l’Europa, le nostre democrazie, il nostro benessere e la nostra libertà. Eppure c’è chi ritiene che Putin, tutto sommato, abbia le sue ragioni e che, soprattutto, le colpe di una guerra d’aggressione siano in larga misura imputabili all’Occidente.
Ma se c’è una colpa dell’Occidente è quella di non aver voluto fermare prima il furore putiniano, di essersi illusi non solo di poterlo controllare ma di potersene servire. Dopo l’11 Settembre Putin, che da nemmeno due anni aveva raggiunto le vette del potere e lo stava consolidando con una guerra interna, per l’appunto in Cecenia, trovò gioco facile nell’indicare in quella operazione un tassello della più globale lotta al terrorismo.
Poco importa che i sanguinosi attentati di cui vennero accusati i “terroristi ceceni” si dimostrassero frutto del lavoro dei servizi segreti russi; poco importa che oppositori e giornalisti venissero uccisi proprio perché cercavano di sollevare il velo dell’ipocrisia da quella che era una vera e propria macelleria umana. Tra i giornalisti uccisi perché stavano raccogliendo prove dei crimini russi in Cecenia ricordiamo il radicale Antonio Russo. L’importante, allora, era lottare contro il “terrorismo” e si decise di chiudere gli occhi sui crimini di Putin in Cecenia perché si voleva credere fosse funzionale a quella lotta, mentre in realtà il vero e più pericoloso terrorista era – ed è – proprio Vladimir Putin. Grazie al sostegno indiretto che Putin ricevette dall’Occidente, la Cecenia è diventata quello che si credeva di combattere: una fucina di terroristi islamisti. Insomma, un capolavoro di strategia geopolitica, con degli effetti nefasti che stiamo pagando a caro prezzo.
Allora, tuttavia, esisteva ancora un governo laico e democratico, l’ultimo eletto sotto l’osservazione dell’OSCE, quello di Aslan Maskhadov. Un governo che operò in ogni modo per la via diplomatica alla risoluzione del conflitto, in particolare promuovendo un piano di pace per l’indipendenza condizionata sotto l’amministrazione dell’ONU, su modello Kosovo e Timor Est.
«Molto è stato detto circa una soluzione politica del conflitto in Cecenia, ma quasi nulla di concreto – scriveva ragionevolmente il ministro degli Esteri Ilyas Akhmadov nella premessa al piano – è stato fatto per raggiungerla… È chiaro che deve essere immediatamente intrapresa ogni possibile azione per mettere fine a questa colossale tragedia… Per tutti coloro che sono sinceramente impegnati in favore della pace e della democrazia in Cecenia, in Russia e nel Caucaso del sud, non c'è nessuna buona ragione per rifiutare questa proposta. Esorto dunque fortemente la Russia e la comunità internazionale, così come ciascun individuo e organizzazione al mondo che creda nei diritti e nelle libertà del genere umano, a sostenerla». A sostenere quel percorso ci fu solo il Partito Radicale guidato dall’allora segretario Olivier Dupuis. La comunità internazionale pensò bene di svendere la Cecenia e i ceceni a colui che riteneva essere un partner affidabile.
Oggi quel partner affidabile ha scatenato la guerra in Ucraina scardinando l’ordine internazionale. Una guerra che ricalca spaventosamente quanto fatto in Cecenia. Akhmed Zakayev, già ministro del governo Mashkadov, che nei giorni scorsi ha tenuto una serie di incontri istituzionali in Italia su invito di Radicali Italiani, ha ripercorso insieme a noi tutti i passaggi. Zakayev oggi vive in esilio a Londra ed è il primo ministro della Repubblica Cecena di Ichkeria, ovviamente non riconosciuta. Promuove la campagna per l’incriminazione di Vladimir Putin alla Corte Penale Internazionale per i crimini commessi in Cecenia. Sostiene, c’è da credergli, che la Cecenia sia stata una sorta di palestra per Putin: lì ha fatto le prove generali, ha affinato le tecniche, i metodi. Quindi li ha esportati in Georgia, in Siria, in Donbass e ora, su larga scala, in Ucraina.
Ci fosse stata una reazione della comunità internazionale venti anni fa, quando Putin ha letteralmente decimato la popolazione cecena, non avremmo assistito ai successivi massacri. Oggi per fermarli occorre agire su più piani, non ultimo quello della giustizia internazionale. L’incriminazione di Putin da parte della CPI significherebbe, nell’immediato, estrometterlo dal tavolo degli interlocutori. Impensabile, secondo alcuni. Eppure è già accaduto con Slobodan Milošević. La fine politica di Putin avrebbe come conseguenza l’interruzione di questa catena di massacri e, non ultimo, come auspicato da Zakayev, un possibile processo di pacificazione e rinascita anche per la Cecenia.