corte di giustizia UE grande

L’Unione europea sulle macerie di regimi totalitari spazzati via. Cerca di far rivivere un’Europa che in alcuni modi era già esistita, in alcuni progetti e realtà di integrazione. Un’ Europa, quella degli anni che precedono la Prima Guerra mondiale, ottimista, trasportata verso le meravigliose sorti di un eterno progredire, un’Europa, se non culturalmente, intellettualmente unita.

Uno dei più limpidi ritratti di questa Europa, genitrice dalla triste sorte dell’attuale, è nei libri di Stefan Zweig che racconta dell’unità spirituale della Mitteleuropa e dell’interno continente. L’autore austro-ungarico racconta dell’Europa dei suoi padri come di un mondo della sicurezza (materiale, interiore, giuridica), una “casa di granito” che guerre, crisi o calamità non potevano scalfire: tuttavia questo saldo edificio si era rivelato, davanti l’avanzare dei tempi, all’esperienza di vita di Zweig “un castello di sogni” spazzato via dalla tormenta di guerre e totalitarismi.

Se l’immagine che presenta Zweig è quella di un mondo caduco che si era creduto inespugnabile, e se le varie cause del crollo suggeriscono un’analisi troppo complessa da affrontare, si può, comunque, notare che il “mondo di ieri” era in qualche modo caratterizzato anche da una certa “fralezza giuridica” per quanto riguarda la difesa dei diritti e delle libertà fondamentali e della “protezione” delle (quando esistenti) garanzie costituzionali.

La prima vera e propria Corte costituzionale in Europa che si occupa della revisione della costituzionalità della legislazione nacque in Austria (su iniziativa di Kelsen) nel primo dopoguerra.

Unicamente nel secondo dopoguerra la gran parte dei Paesi continentali si dota di un sistema di revisione costituzionale della legislazione (quale, si potrebbe dire, meccanismo di difesa o di “deterrenza”) e, allo stesso modo, molte costituzioni precedentemente flessibili diventano costituzioni “rigide”. Tuttavia, appare chiaro, che forse la struttura che probabilmente poteva (e può) su tutte cementare il “castello di sogni” e renderlo una struttura veramente solida ed “abitabile” è la comunità europea (e in seguito l’Unione): essa salda, dai suoi primi passi, con le relazioni economiche un legame sufficientemente “deterrente” e protettivo. Nel suo evolversi, ferme fondamenta vengono arricchite da meccanismi propri di salvaguardia esplicita del diritto e dei diritti.

Dietro l’unione economica vi era una ragione di necessità storica per la pace e la sicurezza dei diritti e delle libertà fondamentali, e, nell’evolversi dell’Unione, tale ragione è stata propriamente esplicitata e “rivelata” nei trattati (nell’articolo 2 e nell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Dopo l’inclusione di molti Paesi che venivano dall’esperienza di un altro totalitarismo (che esaltava la dittatura del popolo, del proletariato e, dunque, considerava il legislativo onnipotente) si sentì nell’Unione europea la necessità di inserire un ulteriore vincolo esterno (quello dell’articolo 7) che potesse salvaguardare il rispetto dello stato di diritto, la solidità del “castello” da proteggere. Allo stesso modo, nell’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea, i principi di rispetto di diritti e di libertà elencati nell’articolo 2, vengono indicati come una condizionalità per l'ammissione nell’Unione (un Paese per entrarvi deve rispettare tali valori ed impegnarsi a promuoverli).

La discussione sul rispetto dello Stato di diritto in Europa è stata nuovamente sollevata, in relazione al veto posto da Polonia e Ungheria sul bilancio europeo, perché l’emissione dei fondi NextGenerationEU non venisse vincolata alla condizionalità di rispetto dello Stato di diritto e all’accordo successivamente raggiunto.

Negli scorsi anni sia Polonia che Ungheria sono state al centro dell’attivazione della procedura di cui all’articolo 7 del Trattato sull’Unione. Tuttavia, al contrario delle tipiche garanzie e meccanismi di sorveglianza sul rispetto dei diritti umani, l’articolo 7 non si riferisce ad una procedura che coinvolga il potere giudiziario (e, quindi, la Corte di giustizia dell’Unione europea): tale procedura può essere, infatti, attivata da un certo numero di Stati membri, dal Parlamento o dalla Commissione europea, per poi passare agli organi intergovernativi.

Per arrivare all’ “innesco” della “nuclear option” (ovvero quella che prevede la sospensione di alcuni dei diritti del Paese accusato) bisogna passare attraverso un riconoscimento all’unanimità, da parte del Consiglio europeo, dell’esistenza di una “seria e persistente violazione” dei valori dell’articolo 2 da parte di uno Stato membro ed attraverso un voto, a maggioranza qualificata, da parte del Consiglio dell’Unione, per poter implementare le sanzioni: al momento, non si è mai arrivati a questo punto. Gran parte dell’Unione (e l’Ungheria e la Polonia lo sanno) considera la procedura dell’articolo 7 troppo difficile da completare (e sovente è stata anche considerata troppo “pesante” da ottenere).

Il meccanismo di condizionalità del Recovery Fund sullo Stato di Diritto, invece, richiede una “semplice” maggioranza qualificata per implementare le sanzioni, mettendo Polonia e Ungheria potenzialmente a rischio. Dunque, da ciò era nato il terrore ed il ricatto dell’Ungheria. L’accordo raggiunto dal Consiglio per permettere l’approvazione del bilancio dell’Unione è stato, tuttavia, molto controverso.

Il Consiglio, attribuendosi poteri che non aveva, ha deciso di approvare il meccanismo sullo Stato di diritto, rimandandone l’entrata in vigore. Sia Guy Verhofstadt che George Soros hanno definito l’accordo un “coup” o quasi. In particolare, l’europarlamentare belga ha evidenziato come non sia possibile difendere lo stato di diritto in uno stato membro se si infrange lo stato di diritto dell’Unione stessa. L’accordo raggiunto prevedeva, infatti, una “dichiarazione interpretativa” per chiarire il meccanismo di condizionalità e disponeva che, in sostanza, le sanzioni non potranno - come sostiene George Soros- essere implementate forse prima delle elezioni in Ungheria.

Infatti, secondo l’accordo, la Commissione avrebbe dovuto redigere delle linee guida per spiegare il funzionamento esatto dell’applicazione del regolamento sullo stato di diritto e, qualora uno Stato membro avesse presentato ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea riguardo la compatibilità del meccanismo di condizionalità con i Trattati (come hanno fatto poi effettivamente Ungheria e Polonia), la Commissione avrebbe evitato di applicare il regolamento e di finalizzare le linee guida fino alla decisione della Corte. Una volta che si fosse espressa la Corte, tuttavia, il regolamento avrebbe potuto essere usato retroattivamente per sanzionare infrazioni dello Stato di diritto avvenute nel periodo di “limbo”.

Molti giuristi si sono detti sconcertati dal vulnus esiziale che la decisone del Consiglio potrebbe rappresentare per la divisione di poteri e per il sistema di “Checks and Balances” dell’Unione Europea. Come hanno spiegato, infatti, il professore Alemanno e il professore Chamon, l’accordo raggiunto dal Consiglio equivarrebbe a una situazione in cui un capo di Stato, in accordo con l’esecutivo, decida di sospendere l’applicazione di un atto legislativo fino a che la Corte costituzionale non l’abbia “chiarito”, in una meridiana violazione della divisione dei poteri e delle prerogative.

Il Parlamento europeo, in una risoluzione del 16 dicembre 2020, ha voluto evidenziare come le conclusioni del Consiglio europeo fossero “superflue” poiché l’applicabilità, lo scopo e la funzione del regolamento sullo Stato di diritto vengono chiaramente definiti nel “testo legale” del regolamento stesso. Il parlamento europeo ha, inoltre, evidenziato come la Commissione “debba rispettare la legge” ed essere “completamente indipendente” e come il Consiglio non possa esercitare funzioni legislative. Il Parlamento ha, infine, ricordato come una dichiarazione politica del Consiglio europeo non possa costituire l’interpretazione di un atto legislativo.

Tuttavia, pochi giorni fa la sentenza della Corte di Giustizia è finalmente arrivata: la Corte ha rigettato il ricorso di Polonia e Ungheria. Il meccanismo sullo Stato di diritto legato ai fondi del NGEU è stato adottato secondo una base giuridica adeguata. La Commissione ha, dunque, annunciato che “finalizzerà le linee guida” per utilizzare tale meccanismo. Ribadendo, quindi, la nozione controversa per cui un meccanismo che in teoria sarebbe già applicabile (e già giuridicamente in vigore: non solo “applicabile”, ma “doverosamente da applicare”, dunque) avrebbe bisogno di un “via-libera” dell’esecutivo, cioè della Commissione. Ciò che appare evidente è che la Commissione tentenna ancora e non vuole assumere misure drastiche contro Polonia e Ungheria.

La fralezza “giuridica” nei contrappesi al potere dei governanti, che caratterizzava l’Europa di Zweig, è stata, in qualche modo, ovviata da meccanismi interni degli Stati membri; tuttavia come dimostrano le esperienze di Polonia e di Ungheria, tali meccanismi spesso non si sono dimostrati sufficienti. La necessità che l’Unione Europea - nata sulle macerie causate (anche) dalla caducità degli ordinamenti liberali precedenti - assuma un ruolo preminente nella difesa di ciò che costituisce la sua essenza e la sua ragion d’essere è ormai pressante. Il meccanismo dell’articolo 7 è un meccanismo monco che non ha, al momento, portato alcun risultato anche per il fatto che, in sostanza, si richiede di sorvegliare a coloro che devono essere sorvegliati.

Il meccanismo inserito nell’accordo del Recovery fund potrebbe essere una vera soluzione per fare in modo che l’Unione prenda la forma effettiva di una comunità politica che si riconosce, anche nei fatti, in una serie di valori che possano essere fatti rispettare (anche condizionando una politica economica comune ad una base valoriale comune). Tuttavia, gli elementi evidenziati prima indicano una natura paradossale nella sua formazione, e una specie di “peccato originale” nel raggiungimento dell’accordo: peccato originale che continua a persistere nella pavidità della Commissione anche dopo la sentenza della Corte.

Nella proposta presentata da Spinelli nel 1984 (ma poi rifiutata) relativa al meccanismo per il rispetto dello Stato di diritto, a giudicare le violazioni degli stati membri doveva essere il ramo giudiziario dell’Unione (la Corte di giustizia dell’Unione europea), come una sorte di “Corte costituzionale” federale. La Corte di giustizia dell’Unione europea era forse l’organo più atto ed idoneo a giudicare violazioni dello stato di diritto (in quanto organo “neutrale” e non politico e, dunque, idealmente non coinvolto nelle questioni dei Paesi da giudicare).

E proprio la questione di una separazione dei poteri “anomala”, e del ruolo della Corte di giustizia dell’Unione è la problematica che viene denudata dall’accordo relativo al meccanismo sullo stato di diritto. Se Polonia e Ungheria sono riuscite a sfuggire all’implementazione della “nuclear option”, “difendendosi” a vicenda per evitare il raggiungimento dell’unanimità, è proprio a causa dell’atipicità di un meccanismo di salvaguardia delle “garanzie costituzionali” che non viene affidato a un organo giudiziario indipendente. Il meccanismo relativo alla concessione dei fondi del NGEU avrebbe in teoria il medesimo problema (anche se non esasperato come per il meccanismo di cui all’articolo 7 dalla necessità dell’unanimità).

La situazione paradossale si è tradotta in una beffa: l’intervento della Corte è stato reclamato dai Paesi che più sovente sono e sono stati oggetto di condanne e richiami da parte della Corte di giustizia e tale intervento è stato richiesto non a favore dello stato di diritto, ma contro di esso. Che l’intervento della Corte sia stato paventato strumentalmente e ipocritamente, solo per evitare la possibilità di vedersi negati i finanziamenti del recovery fund prima delle elezioni (nel caso dell’Ungheria) e sia stato usato per creare un controverso “limbo” giuridico è estroso e contraddittorio. Come sostiene l’europarlamentare dell’opposizione ungherese Katalin Cseh, ora Orban e la maggioranza stanno, al solito, sostenendo che la Corte di Giustizia è illegittima e prevenuta: cosa ancora più paradossale, ipocrita e offensiva nei confronti dell’assetto “costituzionale” europeo.