natura grande

Insomma, alla fine abbiamo inserito la tutela dell’ambiente in Costituzione. Una svolta epocale, come qualcuno va propagandando?Certamente no.

La modifica dell’art. 9 Costituzione con l’aggiunta di un terzo comma in cui si afferma che la Repubblica “tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni” non comporta, infatti, grandi novità (il riferimento alle future generazioni è invece una vera svolta, ma oggi non ci occupiamo di questo). La Costituzione è un programma dinamico, fatto per evolvere e adattarsi a sfide e a tempi nuovi. Una dinamicità che naturalmente dipende dagli interpreti della Carta, a cominciare dal supremo giudice delle leggi, la Corte costituzionale. La quale, da tempo, aveva già ricavato la tutela dell’ambiente come valore primario attraverso una lettura espansiva della tutela del “paesaggio” sancita nello stesso art. 9.

Una lettura evolutiva che, nel tempo, ha fatto assurgere l’habitat da una dimensione meramente paesaggistica (dunque morfologica, visiva, culturale) ad una ambientale (vitale, valoriale, comunitaria). Una lettura che, tra l’altro, aveva già trovato recepimento nella riforma del Titolo V del 2001, che modificò l’art. 117, secondo comma della Costituzione prevedendo la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema tra le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Già un anno dopo questa riforma, per dire, la Corte costituzionale ebbe modo di precisare che la tutela dell’ambiente non dovesse essere vista come una semplice “materia” nel riparto di competenze, bensì come un “valore costituzionalmente protetto”, dal momento che “non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze" (sentenza n. 407 del 2002). Quindi, nessuna svolta epocale.

Quel che, invece, risulta politicamente significativo, è la scelta operata dal legislatore nel connotare questa tutela anche rispetto alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). Si tratta di una scelta politicamente significativa perché questa connotazione non è intervenuta limitandosi a tracciare un “limite” all’attività economica (limite che, di per sé, poteva dirsi anch’esso immanente al sistema e che già era stato riconosciuto dalla giurisprudenza), bensì individuando anche un “fine”.

La riforma non si limita, infatti, a stabilire che l’attività economica debba svolgersi in modo da non recare danno pure alla salute e all’ambiente (oltre che, come già era previsto, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e all'utilità sociale) (art. 41, comma 2, Cost.).
La riforma è altresì intervenuta al comma 3 dell’art. 41, stabilendo che la legge possa determinare i programmi e i controlli opportuni affinché l'attività economica venga indirizzata e coordinata non più solo a fini sociali, ma anche ambientali.

Cioè, la riforma ha promosso l’ambiente da “limite” a “fine” dell’attività economica. Con ciò, di fatto, relegando l’uomo stesso in secondo piano. Se, infatti, nei “fini sociali” già menzionati dalla norma l’uomo rimaneva comunque al centro - seppur in una dimensione collettiva - nell’individuazione dell’ambiente come fine l’uomo risulta solo uno degli occupanti dell’habitat. Chiaro che tutelare l’ambiente si risolva concettualmente in una tutela pure dell’uomo. Ma possiamo affermare ciò in senso assoluto e in ogni caso?

Forse no, perché se il fine non viene più individuato nell’occupante (nemmeno comunitariamente inteso) bensì nell’habitat, stiamo assistendo a un superamento dell’uomo stesso che, in astratto, potrebbe anche comportare in futuro un bilanciamento di valori costituzionali ideologicamente squilibrato a scapito dell’individuo. L’ambiente come fine costituisce una breccia ideologica nella nostra Carta fondamentale, tipica di un certo progressismo degenere. La stessa matrice che sta dietro all’iconoclasta pretesa di revisione della storia o ai paradossi di certo egualitarismo.