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“Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti” è un libro del politologo irlandese Peter Mair, scomparso prematuramente nel 2011. Prendendo le mosse dall’espressione “popolo semi-sovrano" - coniato quasi mezzo secolo fa dal politologo americano Elmer Eric Schattschneider per suggerire che il controllo sul processo decisionale politico fosse ormai al di là della portata del cittadino comune - Peter Mair rileva come anche oggi la sovranità del popolo sembri dileguarsi. “Ciò che vediamo emergere” - diceva Mair - “è una nozione di democrazia che viene costantemente spogliata della sua componente popolare: una democrazia senza demos”.

Causa di ciò un duplice processo di ritiro (o di “secessio”, per dirla con Christopher Lasch e il suo “La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia”) dalla politica elettorale di massa: uno da parte del popolo (conseguenza dell’indifferenza) e uno da parte delle élite (conseguenza dell’autoreferenzialità).
Pesando l’impatto dei cambiamenti che hanno portato gli elettori, dopo un secolo di aspirazione e di pratica democratica, a disertare l’arena politica, Mair esamina lo sviluppo parallelo allarmante che ha visto le élite politiche chiudersi sempre più in se stesse, in circoli autoreferenziali che le hanno portate a rimodellarsi come classe professionale omogenea e ad arroccarsi all’interno delle istituzioni statali, come un riparo in grado di offrire relativa stabilità in un mondo popolato da elettori volubili. La disfatta clamorosa della politica italiana a cui abbiamo assistito in questa settimana, con la designazione di Mario Draghi come Presidente del Consiglio, conferma le tesi di Peter Mair.

Nel corso di questa legislatura la politica italiana, pressoché senza distinzioni, e sicuramente con riguardo alle forze con i numeri maggiori, ha dato grande prova di vuoto. Vuoto in idee, vuoto in azione, visione e in concezione. A proclami vuoti sui social network non può che corrispondere il vuoto nelle aule parlamentari, d’altronde. La constatazione di questo fallimento (che giunge al termine di un processo iniziato molto tempo fa) deve farci seriamente riflettere sul futuro della nostra democrazia.

L’oggetto principale dell’indagine di Meir sono i partiti politici e la trasformazione che gli stessi hanno subito negli ultimi decenni. E’ là che nasce il vuoto. Ed è là, quindi, che bisogna spingere la riflessione.
Cos’hanno perso i partiti, o cosa non sono mai diventati veramente? Capire come vennero considerati dai nostri padri costituenti - che si trovarono nella condizione ideale di misurarne soprattutto il contribuito alla fine di una dittatura - ci può aiutare a trovare una risposta.

La Repubblica e la democrazia necessitano di “formazioni politiche basate su una fede, unite da un comune sentimento, sollecitate da legittimi interessi, espressioni di idee più che di uomini singoli. In questo senso i partiti sono necessari e salutari alla democrazia” (Umberto Tupini, Assemblea costituente, seduta del 5 marzo 1947).
Da “fucine in cui si forma l'opinione politica, e in cui si elaborano le leggi, perché i programmi dei partiti sono già progetti di legge” (Calamandrei, seduta del 4 marzo 1947), i partiti oggi sembrano invece essersi ridotti a “gruppi e gruppetti che esprimono piuttosto aspirazioni e ambizioni di singoli che vaste esigenze di collettività” (Umberto Tupini, ancora nella seduta del 5 marzo 1947).
“Non è possibile un Gabinetto forte, autorevole, parlamentare, senza indicazioni di voti, compagini di idee, base di partiti. Se le vecchie Camere italiane hanno avuto i loro torti, questi ebbero causa, in modo preminente, nell'assenza di grandi partiti, che fece decadere il Parlamento nel parlamentarismo” (ancora Tupini).

Tre erano le condizioni, per Tupini, affinché i partiti potessero fungere da veri propulsori democratici, anziché da vetrine per leader estemporanei:
1) che attuino sinceramente il metodo democratico, a cominciare dal loro interno, e che si propongano di attuarlo nel paese;
2) che non si ingeriscano indebitamente nella pubblica amministrazione;
3) che svolgano fra il popolo una vasta funzione educatrice di libertà, suscitatrice di civili competizioni politiche.
Perché “tutti i difetti del parlamentarismo scompaiono man mano che i partiti avanzano, man mano che i partiti si consolidano e penetrano nella coscienza dei cittadini, man mano che diventano forme di organizzazione popolari e raggruppano quanto più è possibile intorno a movimenti ideali e ad indirizzi pratici le più grandi masse”.

Partiti forti, coerenti nelle idee, vicini nelle forme organizzative ai cittadini, con un dibattitto vivo e genuino, neutralizzano i difetti del parlamentarismo.
I partiti da social network, quelli “vetrina” e quelli “palcoscenico”, invece, allontanano la partecipazione dei cittadini, esacerbano la dimensione autoreferenziale e spalancano le porte all’antipartitismo, al populismo e alla dittatura.
E l’antipartitismo è un male da evitare e denunciare ad ogni avvisaglia, sempre. Perché, come diceva Nadia Urbinati, si tratta prima di tutto di una pessima ideologia per la democrazia, che espelle dalla politica i cittadini ordinari e lascia in campo solo quelli che nella politica ci stanno per ragioni meno nobili di quelle di partito.