social network grande

L'espulsione di Donald Trump da Twitter, Facebook e da altri social media a seguito dell'assalto a Capitol Hill da parte di suoi sostenitori il 6 gennaio scorso, ha riacceso il dibattito sulla natura e regolamentazione pubblica di queste applicazioni. L’argomento, come ben raccontato da Alberto Mingardi sul Corriere della sera, è complicato, perché implica dirimere una questione generale sulla natura dei social media: sono infrastrutture ormai imprescindibili per la libertà di espressione, oppure servizi privati di pubblicazione di contenuti, con connesso legittimo diritto di scelta del titolare del servizio su cosa e chi pubblicare? Ci sono valide argomentazioni a favore di entrambe le possibilità e questo rende particolarmente difficile sviluppare una dottrina giuridica coerente e appropriata sulla materia.

Ciò nonostante, c'è un aspetto, in questo dibattito che lascia un po' perplessi. Non sembra tenere molto in considerazione come i social media effettivamente funzionino. Semplificando: potremmo definirli software che competono per aggiudicarsi l’attenzione degli utenti sfruttando le loro interazioni e i meccanismi neuropsicologici e comportamentali - come ricompense cognitive e emotive, reazioni competitive, di autodifesa, di appartenenza identitaria a gruppi - che l'evoluzione ha donato alla nostra specie. Di cosa stiamo parlando è facile intuirlo: immaginate Facebook senza like, o Twitter senza followers visibili e cuoricini. Vi piacerebbero ancora?

Su questi aspetti c’è da tempo dibattito, almeno tra gli sviluppatori, che ogni tanto emerge sulla stampa (non italiana), ad esempio qui o qui. Di recente un tentativo di trattarlo in via divulgativa è stato fatto nel docufilm The Social Dilemma. Se si tiene conto di questi aspetti dal punto di vista del business di queste aziende (e quindi della sua regolazione) si comprende perché la dicotomia infrastrutture vs servizi, appare un po' riduttiva. Questi prodotti assomigliano piuttosto a sofisticati software per l'advertising e la persuasione, che come la pubblicità sfruttano processi psicologici e cognitivi profondi per “catturare gli utenti”. È ben più che un "business dei dati personali". Piuttosto, si tratta di un business dell'attenzione.

Perché questi aspetti sono importanti? Perchè aiutano a chiarire alcuni problemi. Si può meglio comprendere come sia la natura stessa dei social media di software per catturare l'attenzione, a condizionare profondamente la struttura delle interazioni sociali, e quindi anche la struttura del dibattito pubblico, con allarmanti ripercussioni. Quella forse più grave (senz'altro involontaria rispetto alle intenzioni dei creatori) è la polarizzazione tribale di ogni argomento di dibattito pubblico e politico, che rende marginale la funzione di esperti (economisti, scienziati, giuristi) nell’orientare il dibattito su basi razionali all'interno di contesti istituzionali autorevoli, e quella dei partiti politici nell’incanalarlo in una competizione democratica per il potere. Speculare a questa, c'è la questione della proliferazione di fake news e teorie del complotto e antiscientifiche, e dell’enorme aumento di visibilità di leader populisti.

Considerare i social media solo in termini di provider di servizi o infrastrutture per le relazioni può forse condurre fuori strada, qualora si affronti la materia della loro regolamentazione. Qualsiasi norma finalizzata a renderli neutri spazi di libera interazione tra utenti implica probabilmente distruggere o snaturare il loro business, il cui obiettivo precipuo è catturare l’attenzione delle persone.