tw trumpa

La cancellazione dell’account personale di Donald J. Trump da Twitter ha scatenato accese discussioni, più di quanto non fosse successo per altre scelte effettuate dalle piattaforme di social networking.

È giusto? È sbagliato? Andava fatto prima? Chi può deciderlo? Rischia di diventare una china scivolosa? E perché altri incitatori di odio, meno visibili nella competizione politica degli USA, sono sempre in grado di lanciare qualsiasi messaggio?
Sono domande legittime, importanti, e nelle loro possibili risposte non mancano prospettive di riflessione più interessanti della questione legata a Trump. Non sfugge però ai più attenti che qualsiasi soluzione proposta al tema “la responsabilità dei social network” finisca bene o male per evidenziare che la coperta con cui ci si vuole tenere al caldo è troppo corta, davvero troppo corta: c’è sempre in agguato qualche interesse preminente (spesso costituzionalmente garantito) che rischia di essere leso. Senza contare che ovviamente non esiste “l’opinione pubblica mondiale” (anzi, magari ne esistesse almeno una europea!) e che dunque gran parte di questo dibattito finisce per essere localizzato sui diversi pubblici e sui diversi agit-attori dei vari social: se la vicenda Trump ha assunto questa rilevanza e visibilità è perché è anche il POTUS, e il suo caso non sarebbe stato lo stesso se fosse rimasto un ricco imprenditore dalla discutibile reputazione.

Questa faccenda della coperta troppo corta a mio parere dipende dalla mancanza di una piena consapevolezza che il mondo è cambiato irrimediabilmente: solo per esempio, applicare ai social network la definizione e le regole riservate agli editori sarebbe come aver chiesto alle prime automobili di ferrare gli zoccoli dal maniscalco per continuare a circolare. Sottolineo poi che le regole sull’editoria sono diverse da luogo a luogo, mentre i vari social hanno una presenza globale: sarebbe stato come chiedere a quei primi automobilisti di cambiare anche tipo di zoccoli a ogni nuova regione attraversata.

Altro esempio: si può pensare a una specie di “Authority sulla verità”, in grado di valutare la pubblicabilità o meno di determinati contenuti e di proporre adeguate sanzioni? Farebbe ridere proporla anche solo a livello di quartiere, se non fosse preoccupante vagheggiarla a livello planetario. Eppure persone serissime e in grado di ragionare con profondità pensano che il problema sia la possibilità per Twitter (azienda privata) di sospendere Donald J. Trump (privato cittadino) dall’uso del proprio software (privato anch’esso), e non avrebbero problemi se a imporlo fosse stata “un'autorità ovviamente terza, di carattere politico”: non credo serva pensare a cosa potrebbe succedere se quell’autorità finisse in mani politiche che abbiano voglia o necessità di zittire i dissonanti.

La visione in un certo senso minimalista, che anche io tendo di solito a contrapporre sui social, è quella di risolvere le questioni di contrasto nel modo ordinario tra privati, cioè in tribunale e secondo le leggi esistenti tra privati: ma è evidente che anche la più tempestiva delle decisioni giudiziarie arriva quando gli effetti di un breve messaggio possono aver creato disastri immani, non riparabili da nessuna sentenza e da nessun patrimonio. Ed è altrettanto evidente che esiste comunque un ruolo pubblico da almeno un lato di questo rapporto privatistico.
Ma a mio modo di vedere il limite di tutte queste idee è che partono da una sostanziale accettazione di qualcosa che fino a neanche dieci anni fa era tutt’altro che scontato: il ruolo assunto dai social network nella formazione dell’opinione pubblica. Il tema più generale infatti, e credo di maggiore interesse anche per chi si interroga sui rapporti ottimali tra Stato e mercato, è proprio quello dell’appalto della pubblica agorà concesso (gratuitamente, tra l’altro, e con queste e altre esternalità negative) a piattaforme private.

Sembra passato un secolo da quando nel 2013 Beppe Grillo lanciava la fatwa contro i “portavoce” del Movimento 5 Stelle che partecipavano alle trasmissioni in televisione; e ormai non preoccupa più nessuno che uno dei Senatori della Repubblica Italiana possegga tre reti con milioni di utenti, quotidiani, settimanali, una delle più importanti case editrici italiane e molto altro. Mentre a un certo punto ha assunto una rilevanza gigantesca quello che i parlamentari, i ministri e perfino il Presidente degli Stati Uniti d’America scrivono in una o più applicazioni software, a volte molto più degli atti politici che effettivamente portano a compimento. Bisognerebbe tuttavia evitare di considerare immobile e immodificabile il panorama digitale attuale. La rapida ascesa di Twitter e Facebook può essere, seppure con maggiore difficoltà, replicata da altri attori (la crescita di Zoom e di altri sistemi di videocall dovuta alla pandemia ne è un esempio): e l'assenza nell'ecosistema occidentale di una "super-app" come WeChat dovrebbe consigliare maggiore cautela nel dichiarare insostituibili e indispensabili alla democrazia i colossi californiani.

Il vero argomento su cui dovremmo confrontarci è la preminenza che hanno assunto un tweet o un post (o qualsiasi comunicazione digitale diretta) nelle società democratiche, rispetto al modo in cui si sono formate le generazioni precedenti; non la discussione (ridicola, per quanto mi riguarda) se l’uomo politico più potente del – sedicente – “mondo libero” sia stato censurato nel momento in cui sia ridotta la sua capacità di esprimersi dalla propria camera da letto, invece che dal podio della sala stampa o dallo Studio Ovale.
A memoria mi pare di ricordare che le citazioni di Marshall McLuhan (e le riflessioni sul suo pensiero) negli ultimi anni siano un po’ sparite dalla circolazione; a dire il vero, mi pare anzi che siano parecchio diminuite le riflessioni complessive sulla comunicazione, che è diventata una tecnica da padroneggiare per ottenere dei risultati, più che qualcosa di cui conoscere e sviluppare una teoria adatta a riflessioni politiche. Ma senza teorie, senza una qualche forma di “ideologia” in un certo senso, tutto diventa illeggibile: siamo alla mercé degli algoritmi anche perché nessuno è ancora in grado di inquadrarli in un discorso più ampio.

Ma se si cerca di allargare il quadro oltre questo tema molto pratico e di urgente attualità, si intravede quello delle condizioni per l’esercizio di una politica democratica, nella società contemporanea e in quella in cui vivranno i nostri discendenti entro la fine di questo secolo. Concetti profondi come liberalismo, democrazia, libertà di espressione, partecipazione, opinione pubblica, rappresentatività, potere, comunità, diritti civili, vanno quantomeno aggiornati per quello che ha comportato e sta comportando la rivoluzione digitale, per evitare che si schiantino e diventino inutili, inattuali o incomprensibili. Sono temi troppo profondi, troppo vasti, troppo a rischio di fraintendimento per essere affrontati qui e ora, in poche righe. Ma almeno proviamo a introdurli, se crediamo che sia utile cominciare a ragionarne.