Cento anni di Sciascia. La tragedia del potere e il dovere della ragione
Diritto e libertà
Un centenario è come un monumento. Se non annoia, intimidisce. Ma se il timore ha radice nella riverenza, e nell’affetto che ci ha legati e ci lega alla persona commemorata, si lascia un fiore e, se non si può, una carezza: muta ma sicura testimone della nostra gratitudine.
Con questa interiore disposizione, mi accingo a condividere qui la mia carezza a Leonardo Sciascia. La ragione della gratitudine è presto detta, perchè comune ai “tanti, tanti, lettori” (evocazione che compare “a difesa”, significativamente durante le violente polemiche ordite contro L’Affaire Moro), che egli sapeva costituire il suo invulnerabile patrimonio, culturale e sentimentale. “Ci sono degli amici, dei conoscenti, dei semplici lettori...”, scrive nella Nota a La Strega e Il Capitano, ma descrivendo l’intero suo cosmo etico ed estetico: dove il “semplici lettori” fissa una schietta e reciproca corrispondenza, che si fonde in una corale conoscenza, in un’unica amicizia. Gratitudine, dunque, perchè nelle sue pagine “vi ritrovai la mia vita di tutti i giorni e quella del mio villaggio...”, “e di colpo cominciai a divorare tutto quanto...aveva scritto”. Sciascia, di Pirandello; noi, di lui.
Se il villaggio sia un villaggio o l’Italia intera, è poi questione di volontà, o di puro caso: “Ed ecco un caso...per quel vi si assomma, per quel che vi si nasconde...” (chi scrive è nato e cresciuto a pochi chilometri da Racalmuto/Regalpetra: da adolescente, ha ancora visto “circoli di compagnia”, sia pure in dissolvenza, e senza difficoltà ha riconosciuto i gesti e i lessici crudamente dongiovanneschi di un Don Ferdinando Trupia perpetuarsi in quel conoscente o in quel rituale crocchio e anzi, con compiaciuto e candido protagonismo; e, uomo fatto, gioca ancora ad indovinare quale possa essere, fa gli anfratti e gli incavi che punteggiano la contrada della sua casa di campagna, quello in cui, il 10 Luglio 1943 “nacque Candido Munafò”: ma, appunto, è solo un caso).
Certo è che, leggendo di “specula della giustizia penale”, attraverso cui intendere se, e in che misura, “lo Stato è nostro”, della nostra responsabilità come del nostro soggettivo diritto, oppure no (quando cominciò a vedere e ad antividere uno Stato “che stava svuotandosi della Costituzione”). O leggendo, mentre evoca “il calvario di Caterina Medici”, La Strega secentesca ineluttabilmente avvinta nelle spire del Capitano (di Giustizia), che “Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano”.
O, in un’altra Nota (a Il Giorno della Civetta; e ci sarebbe da meditare sull’uso compositivamente discreto, delicato quasi, che Sciascia fa delle sue Note: a voler uscire allo scoperto, appena chiusa la dimensione letteraria, ma per affermare simultaneamente una continuità di parole e di pensiero, che integra l’immaginazione nella cronaca, e preclude ogni faziosa, e tendenziosamente sterilizzante, tassonomia di generi letterari e quadri ideativi), che “Io ho sempre temuto la querela più che la lupara”: ecco, messi di fronte ad una tale trama di passi e di rimandi, è davvero difficile escludere questo o quel “villaggio”, questa o quella “vita”, questo o quel ventennio, dal tragico sciasciano: posto che la corrosione e la corruzione della legge, del giudiziario, è giunta oggi all’estroflessione permanente nella società politica, determinandone matrici e generazioni: tanto da far apparire ormai simile “manipolazione categoriale”, come il normale “corso delle cose”; al più, faccenda per indolori simposi legulei con cui animare i fine-settimana, e un’endemica marginalità forense.
Ma c’è una ragione più profonda di questo, che abbiamo sommariamente definito il “tragico sciasciano”, e che spiega i termini universalmente umani con cui la sofferenza per la sopraffazione, è tradotta in un comune strazio: ed è la compenetrazione intima, quasi fisica, con cui Sciascia vive, e la sua arte rende, l’umiliazione indotta dal potere coercitivo. Non dal suo abuso: da questo potere in quanto tale.
Per es., ne Il Teatro della memoria scrive, a proposito dell’amante di Mario Marino Bruneri, Camilla “Milly” Ghidini, testimone risolutiva nell’accertamento della falsa identità del Bruneri /Canella: “se la mano della giustizia non l’avesse stretta alla verità, costretta, strizzata”. Dove è evidente, nell’uso di verbi così plasticamente descrittivi di una violenza -e nello strizzare vi è vivida implicazione della corda che, coi suoi tratti, strizza l’inquisito- come la verità non valga la costrizione, la sopraffazione istituzionale.
Il “Vice”, che tiene il dipinto di Durer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo appeso alla parete del suo ufficio di funzionario di polizia colto, pensoso e malato, “odiava le abitudini della polizia di eseguire mandati di cattura, perquisizioni e anche sopralluoghi o visite informative, nelle prime ore del mattino e, più spesso, in piena notte...Quel bussare rumorosamente a una porta dietro la quale ignare famiglie celebravano il riposo, il sonno...l’allarmato: chi è? e il solenne e rimbombante rispondere: polizia; quell’aprirsi a spiraglio della porta, l’irruzione; e dentro, poi, lo svegliarsi agitato di tutta la famiglia, le voci di paura e di stupore, e il pianto dei bambini...”. Lui è lì; noi siamo lì.
L’odio del “Vice”, e di Sciascia, non ha nulla di impulsivo: perchè “gli impulsi”, come “le energie ideologiche”, “per la loro ambiguità possono accendere fatti rivoluzionari e fatti repressivi, intercambiabili, mutuabili...”: e la “Rivoluzione Italiana” di Mani Pulite seguirà il paradigma di questa ambiguità.
È, invece, il segno generoso di una fermezza morale che fonda un’identità politica, fatta di ragione a freno della passione: “Terribili sono in ognuno, e anche nei più miti, le passioni politiche” (e stava narrando del linciaggio di Giuseppe Prina “Ministro delle finanze nel Regno Italico”, a cui assistette Manzoni, riportandone “rimorsi” per la “sua freddezza e impassibilità” con cui, appunto, preso da passione politica antinapoleonica, aveva assistito al fatto: mai vediamo Sciascia indietreggiare di fronte alle debolezze di coloro che pur assumono tempra per lui largamente esemplare, così magistralmente arricchiti, anzi, da una riconoscibile fragilità).
Un fondamento critico che affiora costantemente. “È sempre difficile che l’ovvio e il sensato entrino in un processo”: chiosa definitiva su La sentenza memorabile, dedicata ad uno scambio di persona, simile a quello Bruneri/Canella già trattato, e tanto più insensata quanto più memorabile: dove la sua amarissima ironia si intrecciava con quella dell’inseparabile Montaigne.
Di più. Su quel fondamento si sedimenta un’inquietudine irrisolvibile, fino a tradursi in un opera che è “un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere...”, essendo inesauribile l’irritazione “appena si dà di tocco all’Inquisizione”, ieri come oggi, “molti galantuomini si sentono chiamare per nome, cognome”, perché “ci sono persone e istituti che hanno la coda di paglia o il carbone bagnato: modi di dire senz’altro pertinenti, pensando ai bei fuochi di un tempo”.
Inquietudine intestata a Frà Diego La Matina, il frate racalmutese “di tenace concetto”, cioè, di indefesso e incoercibile libero pensiero, studiato e riscoperto quale sorta di “concittadino perenne”: condannato dall’Inquisizione per eresia e di cui volle tramandare “un diverso giudizio...che era un uomo, che tenne alta la dignità dell’uomo”.
Immortalato, letteralmente, quale eroe di un impossibile riscatto da ceppi invincibili, e tuttavia piegati ad una giustizia vindice: spinta fino all’uccisione dello stesso Inquisitore, finito proprio a colpi di manette: Morte dell’Inquisitore (ed erano manette-schiavettoni, di quelle ammirate, ancora alla fine del XX secolo, ai polsi di un famoso imputato nel Palazzo di Giustizia milanese della “Rivoluzione Italiana”).
Un tormento che è un termine fisso, e che si irraggia dall’invocazione di una (per lui) ineludibile responsabilità morale dell’uomo-giudice: perchè “la realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo, ma il provvedimento giurisdizionale”, annoterà, ponendo le parole di Salvatore Satta in esergo a Porte Aperte, romanzo-manifesto di radicale negazione, di radicale condanna della pena di morte. E di ogni riduzione della pena a strumento a disposizione di una superiore “esemplarità”.
La responsabilità è possibilità di azione: scelta. Il magistrato può agire moralmente quando non scinde l’uomo dalla funzione, il corredo della sua coscienza guidata dalla ragione, dalla perizia pronta ad esperirsi nel reale, ad aprirsi ai suoi suggerimenti: “sono convinto di aver fatto il mio dovere di uomo e di giudice; sono convinto di aver lavorato, tecnicamente, con gli argomenti giuridici, come meglio non si poteva...”. Uomo e giudice, ricomposti. La Dittatura, quella fascista e ogni altra, non tollera la forza di questa unità, ed esigerà il prezzo di una carriera, le sofferenze di una vita, ma “io ho salvato la mia anima”, rivendicherà “il piccolo giudice”. E difeso il principio.
Privata di questa unità, la giustizia si aliena e si pone in quel regno di trasognata diastanza e ferocia incarnata dal Presidente (della Corte Suprema) Riches, nella celebre pagina de Il Contesto, che ne ritrae il delirio di onnipotenza: “la sola forma possibile di giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione...Puniti nel numero. Giudicati dalla sorte”.
Oppure, facendosi forte della sua stessa insipienza, erigendo l’ignoranza a virtù, finisce in una aberrazione complementare, impietosamente squadernata nell’altrettanto celebre dialogo fra il Professor Franzó e il Procuratore, in Una Storia semplice:
“Ma si ricorda di me?».
«Certo che mi ricordo».
«Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altre natura… Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
«Perché aveva copiato da un autore più intelligente».
Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto»
Da questo magistero è attraversata tutta la più nota militanza civile di Sciascia, spesso travisata, come quella notissima sul Pool Antimafia, o fatta oggetto di violenza incontenuta: come quella, connessa, del “cd Coordinamento Antimafia...una specie di comitato di salute pubblica. E non so quale e quanta legittimità abbia, in uno stato di diritto, un simile comitato”; e dalle cui semine, possiamo ora aggiungere, è germinata l’intera sequela delle “riscritture storico-giudiziarie”, culminate con il lenocinio della trentennale tortura di Calogero Mannino e dell’impostura, poco meno longeva, della cd Trattativa.
E, naturalmente, ancora da questo magistero artistico e civile, la battaglia per Enzo Tortora: “dell’innocenza di Tortora sono sicuro”, e l’incontro coi radicali.
Una tensione, una costanza, una ricchezza di pensiero e di parola come quelle di cui Sciascia ci ha fatto dono, non hanno riscontro nel mondo contemporaneo: “nessuno, anche se sprovvisto di ogni supporto diciamo tecnico, si può considerare estraneo e profano riguardo all’amministrazione della giustizia”.
Per questo umanissimo sentire, che va all’arte, e da questa torna a quello, incessantemente, pessimisticamente ma mai disperatamente, vogliamo bene a Leonardo Sciasca. E per questo speriamo che nessuno si astenga dal tributargli una carezza: nel centenario, ed anche in seguito.