Obbligo, priorità, scarsità. L'etica dei vaccini ridotta a chiacchiera tv
Diritto e libertà
Non hanno meritato il giusto rilievo le riflessioni del filosofo Maurizio Mori, Presidente della Consulta di bioetica, il quale a proposito della campagna di vaccinazione anti-Covid ha suggerito un approccio radicalmente alternativo a quello dell’esecutivo, che porterebbe a privilegiare nell’ordine delle priorità i politici e gli studenti rispetto alle persone anziane, sulla base di considerazioni di razionalità etica discutibili, ma tutt’altro che arbitrarie.
Quanti – questa è in sintesi la tesi di Mori – hanno le maggiori responsabilità nel governo della pandemia (i politici, come i medici) devono essere “salvati” per primi, proprio per non lasciare il Paese senza guida e senza risorse tecniche essenziali per la gestione delle emergenze sanitarie. Gli studenti andrebbero invece privilegiati rispetto agli anziani sulla base del principio che bisogna salvare “non più vite, ma più anni di vita” e soprattutto del fatto che, se nel caso degli anziani esistono alternative temporanee alla vaccinazione, come l’isolamento, nel caso degli studenti per porsi al riparo del virus l’unica alternativa alla vaccinazione è di fatto non andare a scuola.
A questo Mori aggiunge una considerazione molto intelligente circa l’obbligo vaccinale, che può considerarsi giustificato come tema in discussione esclusivamente nel momento in cui si dimostrerà che la vaccinazione preserva non solo dalla malattia, ma dal contagio e quindi impedisce che i vaccinati divengano veicolo del virus. Una vaccinazione fondata sul dovere di non ammalarsi per considerazioni di utilità generale non sarebbe invece bioeticamente, né giuridicamente giustificata.
Molto più discutibilmente, dal mio punto di vista, Mori si dichiara favorevole anche a “togliere il brevetto sui vaccini”, per favorirne la produzione di massa. Molto discutibilmente, dico, non solo dal punto di vista del diritto di proprietà e della certezza del diritto, che guidano ovviamente gli investimenti di lungo termine di tutte le imprese, secondo un principio di affidamento, ma anche dal punto di vista etico-politico, perché il disincentivo dell’investimento in innovazione nel campo della salute ha effetti intertemporali catastrofici proprio sulla salute umana, sugli “anni di vita da vivere” non oggi, ma tra qualche lustro o mezzo secolo. Se oggi abbiamo dei vaccini, li abbiamo perché in pochi mesi molte imprese (supportate anche da molti governi) hanno investito risorse ingenti per realizzarlo. Senza brevetti è molto probabile che oggi non avremmo neppure i vaccini. E peraltro il prezzo dei vaccini, che remunera gli investimenti delle imprese, è ampiamente sostenibile, almeno da questo “lato del mondo” e non è alla base dei problemi di scarsità che stiamo riscontrando.
In ogni caso l’approccio di Mori è molto importante perché evidenzia la totale assenza di una riflessione seriamente bioetica su di un tema interamente sequestrato dalla demagogia politica, che usa il diritto alla salute come una sorta di passepartout, di giustificazione universale per qualunque tipo di scelta, a maggiore se fondata su un apprezzamento non dichiarato di interessi rivali e escludibili, a fronte di una quantità di risorse insufficienti per soddisfarli tutti contemporaneamente.
La “scienza” e gli “scienziati” sono depositari di un sapere specialistico, che in sé non risolve nessuna delle questioni etico-politiche legate a problemi di scarsità e dunque di selezione di priorità, fondata su valori giuridici o morali, dinanzi ai quali ovviamente la virologia o la statistica medica, se esercitate in buona fede, rimangono silenti. Non è la "scienza" a dire se debbano essere vaccinati prima i vecchi o i giovani, i medici o gli insegnanti, i lavoratori o i pensionati. Un epidemiologo può approssimativamente stimare che effetto può avere l'apertura delle scuole sulla diffusione del contagio (fatte salve le evidenti divergenze di opinioni tra gli stessi scienziati), ma non potrà dire cosa il legislatore “deve” fare sull’apertura delle scuole, cioè quali interessi, di quali soggetti e di quale “tempo” (di oggi, domani, dopodomani?) deve privilegiare e sacrificare rispetto a una scelta, che in ogni caso lascerà sul terreno delle vittime.
Il fatto è che questa discussione dovrebbe essere tanto razionale e scientifica, sia pure disciplinarmente diversa, quanto quella che riguarda aspetti più propriamente clinici o epidemiologici. Invece in Italia viene regolarmente elusa e trasformata in una fiera di buoni sentimenti e di buoni consigli, cioè in una maschera della irresponsabilità e dell’inefficienza. Le scienze sociali e morali sono degradate a sottoprodotti della chiacchiera tv, a dopolavoro di medici e ricercatori tra un turno e l'altro in corsia o in laboratorio. Così abbiamo “scienziati di Stato” e “dirigenti di Stato” che si improvvisano sacerdoti del bene universale, con fervorini letteralmente imbarazzanti.