welby grande

Piergiorgio Welby amava la vita con una intensità toccante. Per lui, artista e poeta, l’amore totalizzante per la vita era l’unico modo con il quale un uomo può abbracciare la gioia e il dolore. Come scrisse al Presidente della Repubblica, morire gli faceva orrore, ma quel che gli era rimasto non era più vita.

Eppure, Piergiorgio, piegato dalla malattia, che lo costringeva all’assistenza delle macchine anche per respirare, ha dovuto lottare per potersi congedare da quel dolore di vivere che lo uccideva più della stessa consapevolezza dell’ineluttabilità della morte. Anche il dolore è vita, scriveva Welby, ma solo quando è transitorio e conduce alla rigenerazione, alla rinascita, a prepararsi alle altre mille gioie che una vita può riservarti, ma quando il dolore occupa tutto il presente, il passato e il modesto futuro che si ha davanti non c’è più ragione di resistere a un’angoscia che non ha fine. E comunque tocca al malato, al paziente, al sofferente decidere se quella resistenza abbia o no un senso.

La battaglia di Piergiorgio e di tanti altri che sono venuti dopo di lui sta nel rivendicare il diritto a porre fine alla propria sofferenza con un atto consapevole, voluto e cercato, che la malattia impedisce di porre in atto autonomamente, ma che diviene possibile con l’aiuto di altri. Mario Riccio l’anestesista che sedò Welby e poi lo staccò dalle macchine che gli consentivano di respirare fu denunciato e poi assolto e, come ha dichiarato anche di recente, il quel caso l’eutanasia (pure rivendicata da Welby) si realizzò nella forma della “desistenza terapeutica” da un trattamento rifiutato da parte del paziente. Non è stata l’ultima assoluzione.

Ne sono intervenute più recentemente, nel caso di Marco Cappato e Mina Welby, per la morte di dj Fabo e di Davide Trentini, anche rispetto a condotte che sono tipicamente classificate come agevolazione alla cosiddetta “eutanasia attiva”, in cui la morte del paziente non consegue unicamente da una astensione o desistenza dalle cure, ma da un intervento positivamente volto a cagionarne la morte.

Anche se ad oggi il testo sul fine vita, pronto per l’approdo in aula, non è ancora legge dello Stato, vi sono state altre misure che hanno aperto la strada, prima di tutto le DAT, le disposizioni anticipate di trattamento (il cosiddetto testamento biologico) approvato in via definitiva dal Senato il 14 dicembre 2017, con il quale si può preventivamente stabilire, in caso di malattia o incidente che pregiudichi la possibilità di esprimere la propria volontà, di non essere sottoposti a pratiche di sostegno vitale o trattamenti terapeutici, che non implicano alcun altro fine che il prolungamento della vita stessa, senza nessuna probabilità di guarigione, o che in ogni caso si ritiene di non volere accettare, ritenendoli troppo gravosi o comunque sgraditi.

In attesa della legge sul fine vita che oramai non dovrebbe giungere troppo oltre e che risponderà tardivamente all’invito al Parlamento della Corte Costituzionale, a legiferare è stata di fatto la stessa Corte con la sentenza n. 242 depositata il 22 novembre 2019, che ha sancito (proprio sul caso Cappato-Welby) l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi (…) agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Intanto, oltre i confini italiani, con l’approvazione in Senato, la Spagna diventerà il sesto Paese a legalizzare l’eutanasia, uno scatto in avanti nei diritti che, nel quattordicesimo anniversario dalla morte di Welby (il 20 dicembre 2006), ci saremmo meritati anche noi. Restiamo qui, a spingere per l’intervento tardivo del legislatore affinché dia corpo ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale: è il momento di far compiere al nostro ordinamento un altro passo lungo la tortuosa e difficile strada delle libertà individuali. Le pregiudiziali etiche non possono più essere il doloroso argine alla libertà di scelta.