populismo big

 

La terza e ultima delle periodizzazioni storiche presentate nella prima parte della rapida carrellata sui trent’anni, che ci separano dalla caduta del Muro, è la fase della rivolta “anti-sistema” e del populismo come ideologia di potere. Durata circa un decennio, incontra il suo primo e fondamentale punto di rottura con la crisi del covid-19 che, a circa un anno di distanza, è diventata palesemente anche una crisi del modello di Stato liberal-democratico. La risposta della maggior parte dei paesi occidentali all’emergenza sanitaria, infatti, sembra attaccare alla base quel modello politico-istituzionale sul quale la stessa società occidentale pareva essersi fondata. Da dove nasce questa rottura? Una delle risposte possibili è individuarla nello scontro irrisolto tra élite “tradizionali” e populismo. Uno sguardo rapido ai governi dei principali paesi europei subito prima dell’arrivo del covid-19 rafforza l’idea di una profonda crisi di legittimità della politica tradizionale, giunta in quel momento a una fase critica.

In Francia Macron, europeista di ferro ed ex banchiere, alle presidenziali del 2017 giunge al ballottaggio con appena il 24% delle preferenze (staccando di pochissimo il 21% del Fronte Nazionale). Alle politiche del mese successivo, caratterizzate da un’astensione record del 56%, la coalizione di En Marche! guadagna la maggioranza schiacciante all’Assemblea, consentendo l’avvio del programma di riforme macroniano, definito dalla sinistra “un golpe sociale”. Un anno e mezzo dopo, con Macron al minimo storico della popolarità, il movimento dei gilet gialli paralizza la Francia per sei mesi.

In Germania, alle elezioni federali del 2017 il partito della Cancelliera Merkel, simbolo dell’autorità dell’Unione Europea, perde l’8% dei voti, i socialdemocratici ottengono il peggior risultato dalla fine della Seconda guerra mondiale, e i nazionalisti euroscettici di AFD entrano per la prima volta in parlamento. Il quarto governo Merkel necessita di sei mesi di trattative per formarsi. Nell’ottobre del 2018, dopo le sconfitte elettorali della CDU in Baviera e Assia, la Merkel annuncia che non si ricandiderà né alla presidenza del partito né per un quinto mandato da Cancelliere.

La Spagna è arrivata allo spartiacque del covid-19 dopo cinque anni di crisi politiche quasi ininterrotte e ben quattro legislature diverse. Dal giugno del 2018, i governi sono stati sempre di minoranza. Nel 2019 si è votato addirittura due volte, ad aprile (quando la destra populista di Vox è entrata in parlamento) e a novembre. L’attuale precaria alleanza governativa fra socialisti e Podemos si regge grazie all’astensione degli indipendentisti catalani, gli stessi che avevano avviato una crisi di governo nel febbraio del 2019: un filo estremamente sottile e delicato.

In Italia, infine, l’attuale governo Conte bis nasce dal rimpasto anti-salviniano dell’agosto 2019 che ha visto entrare nell’esecutivo un partito, il PD, che aveva ottenuto alle elezioni del 2018 (anch’esse caratterizzata dal record di astensione nell’epoca repubblicana) il peggior risultato della sua storia (19%), al posto del partito leader della coalizione di centrodestra che invece a quelle elezioni aveva primeggiato. L’Italia è un caso particolarissimo in quanto un partito populista quale il Movimento 5 stelle si è progressivamente legittimato come reazione alla svolta ultra-populista dei partiti di destra.

A emergere da questo quadro è una palese crisi di consenso dei partiti tradizionali. Anche questa, però, ha radici profonde che vanno ben oltre il decennio del populismo e risalgono alla crisi delle democrazie sociali negli anni Settanta. La spesa pubblica era stata utilizzata sistematicamente, durante i “trenta anni gloriosi” seguiti alla fine del conflitto mondiale, come strumento di costruzione del consenso tramite politiche sociali. I tagli al welfare generati dalla crisi economica dei Settanta, seguiti dall’austerity neoconservatrice del decennio successivo, crearono già allora un problema di consenso per le democrazie europee. La risposta fu l’accelerazione del processo di unificazione europea. Questo però, se fornì nel lungo termine una risposta al caos economico seguito alla fine degli accordi di Bretton Woods e alla crisi petrolifera, d’altra parte fece ben poco per risolvere il problema del consenso. Anzi, il carattere essenzialmente commerciale e finanziario dell’Unione fece sì che il consenso fosse legato indissolubilmente al benessere economico e all’idea del movimento libero di uomini, merci e capitali.

Non a caso questo modello mostra segni di cedimento sostanziali in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e al problema dell’immigrazione, che mettono in crisi proprio i capisaldi su cui i politici europei avevano ricostruito il consenso. È a questo punto che al tema del populismo, o meglio alla reazione ad esso da parte delle élite tradizionali, si intreccia la crisi dei valori liberali. La difesa del modello d’integrazione europeo si è retta infatti sulla retorica dell’antipopulismo, fondata su multiculturalismo e tolleranza, e ha scomposto i diritti nella varietà delle loro applicazioni (religiosi, sessuali, etnici, ecc.), mettendo così da parte la centralità del soggetto-individuo. Il processo di colpevolizzazione della civiltà occidentale che ne è seguito ha portato all’accentuazione esasperata dell’identità di gruppo a discapito di quella individuale, generando una reazione opposta e contraria: l’etnonazionalismo, con la sua ossessiva difesa delle singolarità, e di cui tutti i populismi sono intrisi. È così che la civiltà occidentale ha legittimato comportamenti profondamente illiberali senza rendersi conto che così facendo avrebbe distrutto i diritti tradizionali dell’individuo, mettendo in crisi il concetto stesso di democrazia liberale.

I populismi hanno dunque intercettato il consenso che le élite tradizionali non avevano più i mezzi per creare, in particolare con l’ulteriore crisi del welfare seguita al tracollo finanziario del 2008. Nell’ultimo decennio è sembrato che la politica non fosse riuscita a individuare una reazione chiara e decisa, come testimoniavano la costante diminuzione del consenso e della partecipazione politica, e la crescita dei populismi. Il covid-19 segna però una rottura netta. Il consenso non va più cercato ma si può nuovamente creare, manipolando la crisi sanitaria. I valori liberali, la cui messa in disparte aveva aperto la strada all’etnonazionalismo, vengono identificati come il nemico da combattere, relegando i populismi a un’opposizione non più soltanto politica, ma etica e morale, e quindi facilmente sconfitta dal manicheismo vita-morte, salute-libertà. Le politiche sociali sono messe in secondo piano dalla questione sanitaria: di conseguenza si rafforza la saldatura tra la politica e la grande industria, sia quella tradizionale che la cosiddetta “industria 4.0”, che non può che beneficiare dalla digitalizzazione dei rapporti sociali.

Infine, l’Europa non è più il nemico, il tiranno distaccato che impone l’austerity, ma il salvatore che elargirà i fondi per l’assistenzialismo forzato a cui le risposte dei governi alla pandemia ci stanno costringendo.

Personalmente, credo sia possibile formulare due teorie alternative in merito a questa risposta delle élite al populismo. La prima è strutturalista, ovvero ritiene che le differenti modulazioni del fenomeno vadano ricondotte a una strategia precisa e predeterminata, sviluppata in ambito europeo al momento delle prime avvisaglie pandemiche. La seconda, che definirei aggregazionista, implica non una strategia preesistente ma una che si è sviluppata gradualmente “sul campo” durante la crisi del covid-19, e che ha visto convergere progressivamente i principali governi europei. Qualunque siano le origini della strategia, il suo risultato è chiaro: i populismi sono (al momento) disinnescati, ma il prezzo da pagare è il concetto stesso di Stato liberal-democratico, che sembra recedere ogni giorno per far spazio a esperimenti di statalismo sempre più accentuato e di accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo, sorretti dalla sponda del sovranazionalismo europeista.

A tutto questo va accostata un’ultima considerazione. La democrazia, nell’ambito degli Stati nazionali, si è costruita con la formazione di un distacco fra la cittadinanza attiva (il consenso di cui ho parlato finora) e la sua rappresentanza, necessario in qualunque sistema elettivo. Mi chiedo dunque cosa accadrà quando questo distacco fra i cittadini e i loro rappresentanti continuerà ad aumentare, vuoi per la proroga dei vari “stati di emergenza”, vuoi come conseguenza dei fenomeni di distacco sociale e digitalizzazione della vita, che inevitabilmente tendono a rimpicciolire gli spazi pubblici per accentuare quelli privati. Cosa accadrà quando i governanti non avranno più bisogno di cercare il consenso, ma potranno limitarsi a crearlo da sé? Siamo forse entrati davvero nell’epoca delle democrazie illiberali, non nel senso “orbaniano” di regimi autocratici che consolidano il proprio consenso limitando la libertà politica delle minoranze e i contrappesi istituzionali all’azione di governo, ma nel senso “tecnocratico” di sistemi di potere formalmente diffusi e articolati, ma politicamente autoreferenziali, che rispondono a una domanda di massa (e quindi lato sensu democratica) di salvezza e di sicurezza attraverso la gestione delle emergenze e di problemi (non solo sanitari) sempre più complessi, in una perenne sospensione del normale funzionamento delle liberal-democrazie.