Salvini Lega grande L’autorizzazione del Senato al processo contro Salvini per la vicenda Open Arms potrebbe rappresentare un paradossale diversivo per la Lega assediata dalle inchieste giudiziarie sui piccioli familiari di Fontana, consentendole di gridare alla persecuzione giudiziaria sulla base di un capo di imputazione suppostamente politico. Una cosa è doversi difendere da una accusa che parte da un tesoretto nascosto in un paradiso fiscale e poi scudato, altra cosa è difendersi dall’accusa, direbbe Salvini, di avere difeso la patria dall’invasione straniera.

In questo passaggio, comunque, le contraddizioni più forti e le ipocrisie più insopportabili riguardano la maggioranza giallorossa, che manda a processo Salvini per avere fatto ciò che anche il governo Conte II ha continuato a fare, cioè ostacolare l’attività di soccorso delle ONG, chiudere i porti italiani e lasciare per settimane navi stracolme di naufraghi ripescati nel Mediterraneo a pochi chilometri dalle coste italiane, impedendone lo sbarco.

L’autorizzazione al processo da parte del Senato ha interpretato correttamente i limiti che la Costituzione e la legge, in questi passaggi, assegnano alle camere. Come ha spiegato didascalicamente Emma Bonino nel suo intervento, non spettava al Senato stabilire se Salvini “sia colpevole o innocente, se altri con lui siano responsabili dei reati che gli vengono contestati, ovvero se il giudizio disposto nei suoi confronti abbia correttamente valutato gli elementi emersi nel corso delle indagini”, ma unicamente se abbia agito – che si consideri o meno illecita la sua condotta – per “tutelare un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero a perseguire un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo (articolo 9, comma 3 della legge costituzionale 1/1989)”.

Le scriminanti previste dalla legge non possono essere riconosciute, in assenza di una precisa qualificazione dell’interesse dello stato o dell’interesse pubblico e della loro rilevanza o preminenza, per il solo fatto che il Ministro abbia agito per ragioni e obiettivi politici. La motivazione della “difesa della patria e della sicurezza dello Stato” da un centinaio di naufraghi denutriti non è solo infondata, è pateticamente ridicola.

Non è però meno patetica e ridicola la pretesa di processare Salvini per gravi reati da parte di quanti evidentemente continuano a compierli, pur reputandoli come tali, ma forse ritenendo che l’azione “criminosa” sia redenta e giuridicamente neutralizzata dalla superiorità morale di chi la compie: non con sfoggio di orgoglio xenofobico, come faceva Salvini, ma nel grigiore della routine burocratica anti-naufraghi e anti-ONG della maggioranza giallorossa. Non con il mojito in mano, ma con i paramenti del sacerdozio umanitario, costretto dalla realpolitik a una dolorosa e pure crudelmente necessaria contraddizione.

Per chi abbia seguito le vicende è evidente che non c’è nessuna differenza tra il caso Open Arms, per cui Salvini andrà a processo, e quello Ocean Viking consumatosi un anno dopo nell’era del Conte II. Però proprio attorno a questa supposta differenza, che si riduce a una questione “antropologica”, non a un’effettiva differenza di condotta, è cresciuta questa bolla di anti-salvinismo virtuale, che, in forma un po’ retrò (ma neppure troppo) potremmo definire un classico esercizio di doppiezza comunista o di ipocrisia clericale.

In ogni caso i banditi vestiti da preti che processano il bandito vestito da bandito davvero non si possono vedere.

@carmelopalma