Socialisti e liberali, insieme. La buona regola del riformismo
Diritto e libertà
Il prof. Emanuele Felice, Ordinario di Politica economica all’Università di Chieti-Pescara, responsabile del dipartimento Economia nella Segreteria nazionale del Partito Democratico e Giuseppe Provenzano, Ministro per il Sud e la Coesione nazionale, hanno pubblicato sull’ultimo numero della rivista Il Mulino (n. 6/2019), un saggio – Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi - che contribuisce finalmente ad arricchire il dibattito culturale interno al mondo riformista impegnato nella battaglia intellettuale e di “agenda politica” contro le nuove destre sovraniste.
L’analisi svolta è storica e ideologica allo stesso tempo, tesa concretamente a porre all’ordine del giorno il tema dell’emancipazione umana all’interno dello sviluppo capitalistico.
L’affermazione occidentale della democrazia liberale, per Felice e Provenzano, il progresso capitalistico e sociale del Dopoguerra europeo, sono stati l’esito tanto della libera dialettica sindacale e d’azienda (tutelata dal quadro normativo statale) quanto dell’azione politica di quelle forze – liberali, socialiste e democratiche – che seppero coinvolgere nell’organizzazione complessa del Paese, attraverso i diversi ruoli rivestiti nel Governo e all’Opposizione, gli interessi e i valori dei lavoratori e di chi storicamente non aveva mai avuto voce all’interno delle Istituzioni.
Dialettica contrattuale e “regole nuove”, dunque, orientate all’applicazione del dettato costituzionale che, progressivamente, conquista dopo conquista, e con non poche contraddizioni, hanno comunque realizzato, anche in Italia, dopo le fatiche della ricostruzione post bellica, quella mobilità sociale dal basso verso l’alto che davvero ha rappresentato, finché ha funzionato, l’esito meritocratico di quella libertà uguale che è l’essenza dello Stato sociale.
Oggi, ovviamente, molto è mutato – per fortuna non il nostro assetto costituzionale – e le vicende geo-politiche presentateci dagli autori ci mostrano il percorso parallelo delle c.d. economie emergenti che, bruscamente, si allontanano, se mai l’avessero davvero intercettato, dal quadro assiologico liberale, dal suo sviluppo democratico, per scivolare decisamente verso l’autoritarismo identitario. Ed ecco, infatti, il fiorire globale delle democrature cesaropapiste, dei neo sultanati, dei regimi populistici sempre più connessi ad una “libertà” economica, intesa solo come arricchimento di autocrati e oligarchi.
Tale crisi è ovviamente crisi anche in casa nostra, in Europa, anche se in forme ovviamente meno dirompenti, e si presenta – nel quadro multipolare internazionale dominato dai riflessi di chiusura propri del nazionalismo – come fine della spinta propulsiva del liberalismo.
Per Felice e Provenzano, è proprio l’interruzione della mobilità sociale, dovuta ad restringimento strumentale dei diritti e delle risorse a disposizione della working class, con il correlato aumento delle diseguaglianze cristallizzate, ad aver ridotto, nella coscienza collettiva, la fiducia nella portata riformistica del liberalismo. È la realizzazione di politiche ottuse, nemiche della cornice giuridica che tutela i mercati (anche dalle spinte intestine monopolistiche) e contrarie ad una decisa integrazione politica europea, ad aver progressivamente veicolato una visione “ristretta” e involuta della democrazia.
Ovviamente, come è esperienza di tutti, prima vittima di tale involuzione è stata proprio la “classe media occidentale” che ha patito un’ erosione economica e di potere, non tutelata dall’intervento pubblico, che l’ha paradossalmente contrapposta alla classe media globale emergente mentre la rendita degli speculatori (non solo privati ma anche di Partito, di Stato, vedi Cina) cresceva - e continua a crescere - senza assumere, nella coscienza dei più, il ruolo di avversario epocale della democrazia compiuta.
Ecco, quindi, perché è venuta meno la fiducia dei cittadini verso la globalizzazione dei mercati! Ecco le ragioni – secondo socialisti e liberali - dell’affermarsi delle neo destre, autarchiche, cultrici della destrutturazione dei corpi intermedi, fautrici di un individualismo asociale, plebiscitariamente legato alla leadership demagogica.
Il problema, quindi, non è solo economico ma anche e soprattutto politico. Parlare, infatti, come fanno Felice e Provenzano, di cesura tra capitalismo e democrazia, anche alle nostre latitudini, significa riconoscere la frattura in atto tra arricchimento dell’élite e diritti sociali, civili, umani. Significa smentire i presupposti della Società Aperta (libertà, concorrenza, merito) per agevolare l’affermazione sregolata di minoranze dispotiche che spacciano come proficuo – come al solito – lo scambio nefasto tra protezione/securitaria e obbedienza irresponsabile.
A questa deriva, la prospettiva autenticamente riformista, secondo gli autori, non può che rinverdire e attualizzare, nella proposta politica ed economica, l’originale incontro tra le culture liberale, democratica, socialista ed è per questo che è opportuno approfondire alcuni passaggi storico/ideali davvero significativi.
Sono il lavoro e la partecipazione a legare liberali e socialisti. Il lavoro e il merito (secondo John Locke) contrapposto alla rendita: il lavoro incarnato – va detto con orgoglio – nella proprietà non trasmessa ereditariamente ma conquistata con il valore e il sacrificio e, ancora, la partecipazione delle masse alla vita del Paese che sostanzia quella “ricerca della felicità”, quella felicità pubblica cui Thomas Jefferson si ispirò per la redazione nel 1776 della Dichiarazione di indipendenza americana e che costituisce il portato più autentico dell’unica Rivoluzione fondata sulla libertà davvero riuscita, secondo Hannah Arendt.
È chiaro, quindi, come lavoro e partecipazione delle masse, merito e libertà eguale - quali valori propriamente liberali - abbiano consentito, nel Novecento, quell’incontro “Occidentale” delle diverse aspirazioni progressiste che dischiusero definitivamente le acquisizioni borghesi all’arricchimento socialista. Fu, in tal senso, Il “nuovo liberalismo” inglese di William Beveridge (1879-1963), e non di certo la cultura conservatrice, a porre le basi ideologiche del welfare state, a riflettere di protezione sociale, di assistenza nazionale, di conquiste sociali, non solo guardando dialetticamente e proficuamente alle aspirazioni gradualiste del Movimento Operaio internazionale ma anche alla tradizione liberale, appunto, alla lezione di John Stuart Mill (1806 – 1873), alla tutela del lavoro e della competizione, finalizzata alla realizzazione della Persona libera dai vincoli tradizionali, dalle tare ataviche, anche grazie all’affermazione sempre più compiuta dell’unità del soggetto giuridico, della nudità liberale di fronte alla legge, della tassazione progressiva sull’eredità, intesa come rendita avulsa da sacrificio e lavoro. Altro che oligarchie mercatiste, quindi!
Felice e Provenzano, dunque, mi sembrano chiari nel rifarsi con attenzione teoretica ad un patrimonio che è comune e proprio (ecco il fecondo paradosso) di più tradizioni.
Liberalismo sociale e social democrazia, quindi, si sono fusi nel welfare state, come esito proprio dell’Occidente, patria della libertà e della giustizia; fusione che, in Italia, ha trovato la sua enunciazione più alta - quale ideologia necessaria, direbbe Aldo Moro - nell’antifascismo anti-autoritario della Costituzione repubblicana, nella negazione radicale dello Stato etico.
Gli ultimi slanci di questo incontro fecondo, di certo, sono presenti ancora oggi: la battaglia per l’affermazione dei diritti sociali di seconda generazione (ambientali, delle minoranze, dell’autodeterminazione bio-etica) è figlia, in tal senso, dello sviluppo sociale e della ricchezza collettiva insita nel capitalismo democratico, ne costituiscono il portato più avanzato che conferma, in ciò, la natura progressista, aperta al futuro del sincero approccio liberale. Altro che conservazione, quindi! E sul punto, e spiace che gli autori non lo abbiano sottolineato, va anche ricordato l’influsso liberante e davvero democratico dell’epistemologia fallibilista di Karl Popper e Friedrich August von Hayek, di quella apertura all’altro e alle sue fonti di conoscenza, alla cooperazione umana libera nella dispersione dei saperi, allo spontaneo moto sociale (che non è né mano invisibile, né manomorta) produttivo di diritti e ordine, che – nella libertà, appunto – sconfessa l’autoritarismo insito nella proposta della casta degli illuminati e dei pianificatori: i soliti despoti, depositari di una pseudo conoscenza chiusa e refrattaria, dediti alla conservazione dello status quo.
Quando si parla, anche criticamente, di liberismo economico, infatti, bisognerebbe distinguere – e i due autori, purtroppo, non lo fanno abbastanza – tra gli indubbi effetti privativi, riduzionisti e ghettizzanti del capitalismo finanziario e tecnocratico, sganciato dall’economia reale e cieco sugli effetti sociali devastanti dell’atteggiamento predatorio, e quel liberismo declinabile davvero, ancora oggi, come riscatto, come Ordoliberismo delle regole che, a partire dalla Scuola di Friburgo, dalle riflessioni di Walter Eucken e di Wilhelm Röpke e grazie a politici come Ludwig Erhard, ha condotto all’affermazione, non solo in Germania, di un liberalismo giuridico, di uno Stato forte e di un’economia sana nei suoi ambiti liberi che ha trovato estrinsecazione nella economia sociale di mercato, articolazione feconda del sistema europeo e, al pari del welfare state, conquista vera e duratura per i lavoratori e per le imprese.
Lo scontro epocale in atto che richiede una decisa presa di posizione (la cui articolazione e scelta va articolata nel buonsenso anche delle opzioni revocabili) non è, quindi, a mio parere, quello tra ricette liberali e ricette keynesiane ma tra un’economia delle regole e dell’intervento perequativo (assunto autenticamente anche liberale, come Felice e Provenzano sottolineano più volte nel loro saggio) e una deregolamentazione, prima di tutto politica e, poi, di mercato, che mira a sostituire la preminenza della partecipazione delle masse e dei lavoratori all’organizzazione dello Stato, delle imprese e dell’economia, con un capitalismo consumistico, instabile, diseguale, che nulla ha a che fare con il culto della concretezza, del risparmio, con il primato del Diritto e con un interventismo saggio - regolatore e arbitro dei processi economici - che è fonte di pace sociale e che emerge dalla soddisfazione reciproca degli interessi e dalla possibilità di miglioramento sociale e crescita economica.
A parte questi chiarimenti nell’ambito di un’omissione comunque importante, è opportuno sottolineare che per Felice e Provenzano, alle prese con la fondazione italiana di un Nuovo socialismo dall’interno del metodo liberale, l’esigenza di governare il capitalismo non assume mai le forme di un cedimento nostalgico a passate velleità rivoluzionarie e utopistiche della Sinistra novecentesca, ma – al contrario – costituisce la affermata necessità di anteporre le regole giuridiche allo scontro degli interessi in gioco; significa, davvero, salvaguardare le conquiste dell’economia di mercato, svelandone le prospettive di miglioramento allorquando si realizza – come è avvenuto storicamente in Europa – la vantaggiosa relazione biunivoca tra capitalismo e democrazia.
Una relazione coordinata che, grazie all’affermazione dei diritti umani, delle garanzie egualitarie, della libertà d’impresa nell’ambito dell’operatività della mobilità sociale, conduce al benessere collettivo, senza impropri riduzionismi ideologici e di classe.
In tale ambito, il riconoscimento della funzione dialettica, come effetto indiretto di sviluppo democratico, della Rivoluzione d’Ottobre, l’analisi delle diverse fasi della Globalizzazione con la specifica attenzione al riaffacciarsi anche in Europa delle diseguaglianze, la sfida delle Destre alle prese con la semplificazione manichea della politica e dell’economia, sono esposti nel saggio in esame come emergenze e urgenze sì importanti ma non eccezionali. Nessun cedimento, quindi, a me pare, ad opzioni emergenziali, a scelte legislative straordinarie ma il giusto riconoscimento di sfide che l’Occidente ha già assunto in passato – e per lo più vinto – tanto contro il mondo comunista, tanto contro gli aculei padronali del laissez-faire.
È autoconsolatorio (o banditesco) affermare, infatti, che il Mercato, da solo, senza Politica e senza Stato, possa risolvere tutti i problemi nascenti dalle nostre società complesse.
E se è vero che a questo riconoscimento non può essere opposta l’ideologia altrettanto settaria dello statalismo burocratico, chiuso sugli interessi dei tanti boiardi, è senz’altro necessario un “ripensamento dello Stato”, un suo nuovo coinvolgimento sull’arena della globalizzazione dei mercati, l’affermazione di una forma nuova di Sovranità.
La sovranità degli interessi di coloro – lavoratoti, imprese, ceto medio, esclusi – che rischiano di essere espulsi dalle dinamiche anonime di estrema finanziarizzazione dell’economia (anche di quella pubblica si intende, e qui si potrebbe aprire la questione, non trattata dagli autori, del peso insostenibile di un Debito pubblico irresponsabile che rappresenta, propriamente, il cedimento dello Stato alla finanza), di un capitalismo non democratico che, evidentemente, premia i giganti e penalizza la misura umana.
Vige e dovrà sempre più vigere tra i riformisti, a mio parere, il celebre brocardo di Jean-Baptiste Henri Lacordaire (1802 -1861), il religioso e massimo esponente del cattolicesimo-liberale ottocentesco, secondo il quale: “Tra il forte e il debole è la libertà che opprime, è la legge che affranca”. Contro l’effimero formalismo del “libero” patto leonino, infatti, il Centrosinistra riformista europeo e Occidentale deve recuperare una dimensione squisitamente giuridica del proprio approccio ai problemi dell’economia, del lavoro, della Società.
Contro la sterile ricetta ideologica di deregolamentazione arbitraria dei mercati, va opposto il coraggio di proposte dirette alla convergenza delle politiche e dei livelli di imposizione tributaria, con una vera e propria politica fiscale comune da abbinare a quella monetaria. Ciò significherebbe, è ovvio, battersi sempre di più per più Europa, per un’integrazione europea sempre più sociale, in grado di sostanziare una vera e propria agenda di sviluppo, da opporre al cicaleggio irresponsabile dei nazionalisti, orfani del mito romantico delle Piccole patrie.
Se ha senso oggi parlare di retaggio delle tradizioni liberali e laburiste d’Occidente, ciò significa che il compito dei riformisti è vivificare il nesso paradossale e fecondo insito nell’espressione capitalismo democratico, lavorando per far comprendere – grazie anche a saggi potenti come questo di Felice e Provenzano – che la democrazia, quella del pluralismo sociale e della forza sindacale – rafforza l’economia se si attua, se si realizza, se stipula - nell’ambito della cornice giuridica costituzionale – quel Contratto tra produttori e lavoratori che disciplina sicurezza, tutele e produttività nei luoghi di lavoro.
Ed ancora, sempre nel contesto del nesso tra capitalismo e democrazia, va compreso che la crescita economica, la tutela dell’intrapresa, il benessere e la ricchezza se diffusa nella Grande Società, aiuta le conquiste democratiche, contribuisce la consapevolezza tra i lavoratori, respinge – grazie all’affievolirsi delle diseguaglianze - le spinte populistiche e demagogiche che si nutrono di crisi e di paure.
E fuori da una dimensione squisitamente economica, socialismo e liberalismo, saranno in futuro davvero tali se sapranno contrapporre alle destre nazionaliste, il complesso dei principi, delle relazioni e dei rapporti politici di cui – meritoriamente – Felice e Provenzano hanno trattato in questo saggio: uguaglianza nella libertà, centralità del lavoro, emancipazione degli esclusi, dimensione relazionale e ambientale.
Sembra poco? Forse… ma è senz’altro possibile, e tanto basta!