Why should we be fighting for Syria? La crisi della libertà in Occidente
Diritto e libertà
Ora che Assad con l’aiuto della Russia sta muovendo, generando del malcontento anche in Erdogan, una nuova sanguinosa offensiva nel Nord della Siria, con bombardamenti sui civili di Idlib e di Aleppo, la comunità internazionale tace, non ci sono pacifisti che manifestano per la fine della guerra, non ci sono antimperialisti che si disperano per l’espansionismo russo in Medio Oriente.
“Why should we be fighting for Syria?”, è un tweet del Presidente americano di ottobre scorso, ma è anche un sussurro, un dubbio, un’insicurezza, uno spettro che si aggira, ora più che mai, per le primarie democratiche, per le primarie repubblicane, per tutta l’America, per l’Occidente. Nonostante i democratici abbiano criticato aspramente Trump per il tradimento dei curdi siriani nello scorso ottobre, anche molti di loro tra cui la Warren sono sostenitori della “grande ritirata dell’Occidente” dalla Siria.
La “Manchurian candidate” per eccellenza di queste primarie democratiche, Tulsi Gabbard, giovane candidata molto persuasiva ed ambigua, sostiene la totale ritirata degli Stati Uniti da qualunque conflitto estero. Gabbard, che ha ricoperto cariche nell’esercito americano, si ostina nel definire la guerra siriana come una delle tante inutili “Regime change wars” causate dall’imperialismo americano e non considera i diritti dei siriani, non le importa se Assad è un macellaio; sa solo che fermarlo non è compito degli Stati Uniti, che l’America non deve inutilmente essere coinvolta nel sovvertimento del suo regime.
La lettura che sembra intuirsi dall’atteggiamento di disinteresse dell’opinione pubblica occidentale per le aggressioni di Putin e di Assad - opinione pubblica che, invece, si infiamma puerilmente per ogni minimo intervento americano - è che ognuno a casa propria può massacrare civili come gli aggrada (ma solo a casa propria).
Il paradosso è che i vari antimperialisti occidentali denunciano l’interferenza americana proprio nel momento dell’apice della ritirata (se non propriamente reale, sicuramente ideologica ed ideale) dell’America, quando invece la principale politica imperialista in Siria e in tutto il Medioriente viene condotta dalla Russia.
La pia (ma forse non troppo, in realtà) illusione secondo cui se gli USA si disinteressassero degli affari degli altri stati, regnerebbe la pace nel mondo, viene invalidata proprio dalla via russa al Medioriente: l’America non si cura della Siria, le trattative per “la pace” in Siria sono state monopolizzate dalla Russia e dall’Iran attraverso l’“Astana processus”, tenendo Assad al sicuro. Il conflitto, le morti di civili e le violazioni dei diritti umani continuano a susseguirsi. In questo modo i diritti e l’incolumità dei cittadini siriani sono certamente più in pericolo che “nelle grinfie” dello zio Sam.
Tuttavia, l’interferenza russa non è e non è stata limitata unicamente alla Siria; l’imperialismo moscovita è da più di 20 anni che infierisce ai confini dell’Europa, dall’Ucraina alla Georgia. La Russia, adesso, sembra stia iniziando a muoversi anche in Libia, l’Europa rimane inerme, sballottata da eventi che si susseguono alle sue frontiere. In tale situazione è singolare notare come i continui appelli per la pace, per terminare guerre inutili, non siano rivolti ai macellai, ai dittatori, o comunque agli effettivi agenti belligeranti, ma ai sempre più disinteressati Stati Uniti o agli occidentali, che accogliendo le varie richieste della sinistra antiamericana sul totale loro ritiro potrebbero solo dimostrare la propria marginalità nelle violenze dei vari conflitti.
Probabilmente dal fatto che la maggior parte dei candidati alla Presidenza americana consideri lo sparuto presidio statunitense in Siria una vergogna, un fastidio, una superfluità e dal fatto che chi, invece, tra di loro ha ancora intenzione di mantenere una politica estera (più o meno) interventista, si esprima in merito sottotono, esitando, titubando, si può desumere un radicale cambiamento nella mentalità dell’opinione pubblica americana. La libertà e i diritti (se sono ancora da considerare valori) sono considerati “cosa nostra”, un’espressione forse culturale, ma sicuramente non universale, non da garantire a chiunque. In questo senso gli occidentali stessi non riescono a capire la portata dei valori liberali, del sistema liberaldemocratico, caratteristica principale ed essenziale dei quali è proprio l’universalità.
Questi “occidentali campanilistici”, in un mondo che non riescono più a ricomprendere, non realizzano che oramai la portata dei valori della loro cultura è andata ben oltre qualsiasi confine territoriale e trovano, ormai, se non giusto, quantomeno normale o legittimo, che gran parte degli arabi o dei cinesi vengano privati di libertà fondamentali.
È la vecchia storia, la vecchia concezione dei popoli culturalmente “estranei” o troppo “immaturi” per la democrazia, per la libertà, concezione che come denunciò in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle l’allora Segretario del Partito Radicale Transnazionale, Olivier Dupuis, è espressione di un forte razzismo, in quel caso anti-arabo: “questo razzismo vuole che gli Arabi e, più generalmente, gli abitanti dei paesi musulmani non abbiano diritto alla democrazia, allo Stato di Diritto, alla libertà”.
In Occidente la cultura della libertà e dei diritti umani come valori, ora più che mai, sta forse scomparendo, e la prima caratteristica di questi valori a divenire totalmente negletta è la loro universalità. Eppure, non si tratta propriamente di un mero suicidio, l’universalità dei valori liberali è da tempi immemori contestata, infatti, dai vari regimi autoritari.
Ad esempio, non solo Dugin (l’ideologo di fiducia di Putin) ha criticato il presunto imposto assolutismo dei principi liberali, evidenziando come in realtà la Russai stia naturalmente abbracciando altri principi culturalmente più a lei calzanti, ma anche la propaganda cinese e dei vari rimanenti regimi comunisti tenta di normalizzare il sistema totalitario marxista come una semplice alternativa via “meritocratica” all’amministrazione dello Stato.
In una Ted Talk abbastanza popolare “A tale of two political systems” vi è una perfetta esplicazione dell’atteggiamento di giustificazione e normalizzazione dei regimi totalitari che ormai è ben affermata anche in Occidente. L’imprenditore Eric X. Li sostiene in modo molto convincente, semplice (probabilmente mellifluo) che il sistema monopartitico è un sistema perfettamente legittimo, tanto quanto il sistema liberaldemocratico. Il problema, afferma, delle democrazie è la loro pretesa di universalismo e il fatto di voler imporre il proprio sistema su tutti gli altri. Al contrario, il sistema monopartitico cinese non vuole annichilire e sostituirsi agli altri sistemi, dice Li, esso non vuole “essere un’alternativa”, ma vuole significare “che esistono alternative”.
L’equivoco su cui questa scusante, questa sdrammatizzazione leziosa del “monopartitismo” (e del totalitarismo, quindi) si basa, è la confusione tra i due concetti separati di assolutismo e universalismo. L’accusa che viene rivolta al sistema occidentale, di invasività e di “repressione” degli altri sistemi è in sostanza un’accusa di assolutismo, di negazione dell’opinione differente ed è, soprattutto, un’accusa assurda se consideriamo che la liberaldemocrazia si basa sulla postulata fallibilità di ognuno e, quindi, anche dei governanti, sulla negazione dell’onniscienza dello Stato e, dunque, sulla preservazione delle libertà personali.
L’universalità del sistema liberaldemocratico, delle libertà umane deriva, al contrario, dal fatto che esso viene indicato come unico sistema in cui è possibile preservare le libertà degli individui e la pluralità delle opinioni, attraverso un processo logico, in teoria falsificabile e non assoluto, basato sulla ragione, e in quanto basato sulla ragione, universale, comune e comprensibile a tutti gli esseri umani. La bizzarria del biasimo rivolto dai sistemi monopartitici al sistema liberaldemocratico - biasimo che vorrebbe il sistema liberale oppressivo nei confronti dei sistemi che lo contraddicono - è che proprio nei sistemi totalitari viene presupposta l’assoluta correttezza di un’idea, di un modello. Il modello viene blindato dall’interno e la critica non è possibile, poiché ciò che è corretto, anche politicamente, viene deciso dall’autorità (dai competenti, affermerebbero i funzionari di partito a cui piace sostenere che i vari sistemi monopartitici sarebbero dei sistemi meritocratici). Dunque, possiamo vedere come mentre certamente il sistema liberale è un sistema universale (e il suo universalismo deriva dalla stessa impostazione logica che definisce la sua apertura), esso non può in alcun modo essere tacciato di pretese assolutistiche. Al contrario l’assolutismo è una caratteristica caratterizzante dei sistemi monopartitici e delle “meritocrazie”.
Nondimeno, se la Cina nell’ultimo decennio ha tacitamente, ma inesorabilmente iniziato a presentare il suo modello politico come legittima alterativa (seppur limitata solo ai Paesi non occidentali e quindi culturalmente estranei al liberalismo), ora, come va a profilarsi la quinta modernizzazione del Paese, il regime monopartitico inizia a dipingersi e a raccontarsi come un modello superiore a quello democratico e, dunque, come un modello legittimamente e provvidenzialmente esportabile.
La guerra ipocrita all’universalismo liberale che è stata uno dei pilastri della propaganda comunista cinese nel decennio scorso sembra esplicarsi, quindi, come un vero tentativo di minare una delle fondamenta dell’idea liberale per ridurne l’attrattiva, la diffusione, tentativo apparentemente riuscito. Il passo successivo, dopo aver liberato il campo dalla “contagiosità” del liberalismo, dal suo universalismo, è avanzare e farsi spazio sostituendo e occupando il posto lasciato dall’universalismo liberale con l’assolutismo del regime cinese, che ora mira a diventare assolutismo mondiale.
Eppure, forse una speranza sull’autoconsapevolezza dell’Occidente viene dall’Iowa. Infatti, il favorito Pete Buttigieg – unico candidato alle Primarie, insieme alla Gabbard, ad essere stato un “veteran” nell’esercito americano - durante i vari dibattiti è stato quello, nel rispondere appunto alla Gabbard sulla Siria, ad essere più chiaro e netto nel denunciare la gravità della ritirata di Trump dalla Siria ad ottobre. Per Buttigieg la gravissima azione di Trump è stata un “tradimento degli alleati degli americani e un tradimento dei valori americani” . “Mayor Pete” è anche quello, che sempre durante altri dibattiti democratici, ha chiaramente criticato l’atteggiamento della Gabbard di “sminuimento” del regime di Assad, definendo quest’ultimo un “dittatore sanguinario”.
Se Buttigieg ha veramente chiaro cosa sia ora in gioco nella difesa dell’universalità dei diritti e delle libertà, e sembra che in un certo modo ne sia cosciente, e se la sua vittoria nel caucus dell’Iowa ha un qualche significato in questo senso, possiamo ancora forse sperare nella necessaria riscoperta e rivalutazione dei valori occidentali nella loro iniziale culla.