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La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza d’Appello nel Processo "Mafia Capitale", che aveva ritenuto la configurabilità dell’art. 416 bis per le associazioni a delinquere ivi giudicate (i gruppi Buzzi e Carminati). Misurare il successo o l'insuccesso della tesi d'Accusa nel Processo Mafia Capitale, entro il concetto giuridico-processuale, dovrebbe essere la giusta condotta, di ciascuno e di tutti.

Questo, però, solo in un mondo ordinato. Ma in Italia non viviamo in un mondo istituzionalmente ordinato. Sicché, quella limitazione è priva di fondamento. La fecondità o la sterilità di un ampio movimento culturale ed istituzionale fondato sulla "scomunica" giudiziaria della "Politica", conclamata e avviata da Mani Pulite, non si può misurare a partire da uno specifico episodio, per quanto simbolicamente rilevante.

Quel movimento si è rinsaldato attraverso i processi politico-mafiosi, ed è giunto al suo grado di più avanzata maturazione con la tesi che parifica la "pericolosità sociale" della P.A. a quella della Mafia. Questa tesi, Politica/Corruzione/Mafia, è stata consacrata, è il caso di dire, nella Legge sulle Misure di Prevenzione. Come pure nel passaggio, micidiale, della repressione inquisitoria dalla Giurisdizione alla Amministrazione, con il congegno delle Interdittive Antimafia. Ma è dogma assai più ampio e risalente.

L'ha sostenuta l'ex Presidente dell'ANM, Davigo; come pure altri alti magistrati (Ardita, Pignatone, ovviamente, ma è un po' una sorta di generale regola aurea), e fa continuamente nuovi proseliti. Il mugugno del Sen. Morra, Presidente dell’Antimafia Liceale “le sentenze si rispettano, ma i dubbi restano”, è solo l'ultimo di una lunga schiera; Salvini e Raggi, uniti nel nulla valutativo, allungano pertanto una ghirlanda nazionale: l’uno: “e cos’era, allora, un’associazione di beneficenza?”, l’altra: “la Cassazione conferma comunque un sodalizio criminale” (e qui può solo soccorrere un bordiniano “Vabbè!”). E, anzi, proprio in questo processo, già dalla sede cautelare, si è convintamente argomentato circa la necessità che i caratteri "tradizionali" della cosiddetta "mafiosità" siano sottoposti ad una interpretazione di tipo "adattivo".

Ma la norma sostanziale, l'art. 416 bis C.P., nacque e si misurò su centinaia di omicidi (lo precisa, fra gli altri, Falcone: nella sua audizione al CSM, quella sui "cassetti", del 15 Ottobre 1991); e non può essere riadattata, senza considerare che alla sua tradizionale formulazione è connesso un intero sistema di regole processuali e penitenziarie di specialissimo rigore, e di specialissima afflittività.

Perciò, non si tratta dell’art. 416 bis CP in sé: ma della sua “filiazione giuridica": probatoria, custodiale e penitenziaria, che autorizza un apparato a impiegare una forza eccezionale (o "emergenziale" che dir si voglia), già calibrata sulla violenza più micidiale, per controllare invece "funzioni" e gestioni amministrative: cioè, politiche.

E gli specifici esiti processuali, variamente o parzialmente assolutori sul punto, come questo odierno, comunque più circoscritti rispetto alle “futuribili” tesi giuridico-formali, non solo non frenano la crescita di quel movimento, ma, solo per apparente paradosso, la nutrono.

Infatti, il processo penale è un pre-testo; il testo è "l'interpretazione supplente", storiografica, giuridica, e, latamente politica, che da esso trae spunti, ipotesi aperte, possibili sviluppi, in un caleidoscopio epistemico sempre libero da limiti logici, perché emotivamente alimentato.

Così, una volta che il processo è solo un pre-testo, un'assoluzione (formula atecnica e lata) può semmai finire col giustificare una più agguerrita ricerca di quello che "non si è potuto scoprire", o una più comprensiva "qualificazione" di ciò che "non si è potuto qualificare": piuttosto che, come si dovrebbe, legittimare l'ammissione di "quello che non c'era".

I “glossatori” non mancano, non sono mai mancati. E c’è chi, fra costoro, persino afferma “nuove letture” in nome di maggiori garanzie: quanto a dire che la Neoinquisizione è sacrosanta, intangibile, solo si tratta di provvederla di divise più à la page (e il criptosovietgesuitismo di larga parte del coté intellettuale, assetato di confische, di “fortune nascoste” e di miliardari del crimine immancabilmente presi a dimorare fra un tugurio e un tombino, offre a simile, obliqua “perpetuatio jurisdictionis”, ineffabile alimento).

Il punto è che andrebbe formulata, con serenità e animo sgombro da indennità e ogni specie di munificienze connesse, ma con fervore illuministico, la seguente dichiarazione di principio: l’apparato antimafia non ha più, e da lungo tempo, alcuna giustificazione storica. E, così com’è, andrebbe abrogato.

Tuttavia, se non ne ha una storico-giuridica, ha sempre una giustificazione politica, meglio, politicienne: nei ruoli e nelle aspettative di ruolo, personale, istituzionale, sociale, di numerosi, petulanti e rampanti suoi nipoti e nipotini: molti dei quali figurano, in campi “di partito” apparentemente opposti.

Come si addice a un potere realmente fondamentale, perimetrale: che può guardare con distacco all’agitarsi di questioni “altre” (tutte quelle diverse da quelle “inquisibili” sono “altre”, in effetti) contemplandone sornione la tendenziale irrilevanza. Tanto lui, l’Apparato, detiene “il potere delle chiavi”, in ogni senso.

Perciò, durerà ancora.