Le scelte di fine vita tra diritto e teologia
Diritto e libertà
Prima del deposito della Sentenza, sulla scorta di un comunicato del 25 settembre u.s. che ha spiegato la decisione della Consulta sull’operatività dell’art. 580 c.p. e sull’evenienza di precise fattispecie di non punibilità (“la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”) credo si possa procedere a qualche riflessione più ampia, ad un’analisi che sfidi la complessità del reale e che, in termini di sociologia dei concetti giuridici, punti ad affrontare la dura contingenza dalla quale emerge la giustizia del caso concreto.
Una realtà, non solo di dolore e di tormento fisico e morale, che coinvolge pienamente aspetti ulteriori quali la scelta etica, l’appartenenza religiosa, l’operatività di una trascendenza di senso che scardina l’ordinario, il consueto, l’ideologico.
Forse non è stato un male che non sia intervenuta la Legge a riscrivere l’art. 580 c.p.. Il Parlamento attuale, infatti, e purtroppo anche quelli degli ultimi decenni, ha, in vero, smarrito fino ad oggi la cognizione del compito di rappresentanza, la capacità di espressione di una visione condivisa del presente e la proiezione di una Società nel futuro.
Schiacciati dalla forza degli esecutivi, i parlamentari sembrano non avere l’autonomia politica e la robustezza intellettuale per una iniziativa che miri a fare sintesi – nell’ambito delle tematiche sul fine vita – tra le diverse anime del Paese per pervenire ad un testo capace di aderire il più possibile alla contingenza, di rispondere alle nuove esigenze popolari.
Fu così, in passato, invece, per l’iniziativa parlamentare su divorzio e aborto e, purtroppo, non è più così oggi.
Il Diritto, però, non è prodotto solo dalla fonte primaria e stante l’operatività dei principi costituzionali e di quelli emergenti dalle norme, anche sovranazionali, sul consenso informato, sulle cure palliative, sulla sedazione profonda continua,sulla relazione medico-paziente e sulla autodeterminazione individuale, la Consulta ha ben potuto affrontare – senza arretramenti ingiustificati e pericolose fughe in avanti - la questione della distinzione e articolazione interna tra suicidio assistito e istigazione al suicidio, evitando di pervenire, per altro, alla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo del Codice Penale, senza sancire, quindi, nessun diritto a morire!
Il sistema giuridico italiano, quindi, tiene; ciò che non tiene, però, è la vera Politica, quella dei dibattiti sui grandi temi, del coinvolgimento dell’opinione pubblica, della raffigurazione dialettica delle diverse posizioni che, in fine, giunge alla elaborazione legale di una buona norma che, se è tale, non può che garantire un ordinato vivere civile, senza imposizioni né arbitrio.
Detto questo, è importante riflettere sull’importanza e pacatezza di una pronuncia giurisdizionale che distingue, contempera, limita, esclude, accoglie, e rimanda e che non apre di certo alla deriva verso l’eutanasia per ragioni economiche od egoistiche (come sostengono malamente molti cristianisti). Si tratta, in realtà, di un a vera e propria espressione di Diritto mite che ci dice come l’istigatore al suicidio, l’agevolatore interessato, non può essere parificato – giuridicamente – a chi aiuta il malato terminale a realizzare la propria volontà, a concludere una vita che per condizioni oggettive non è più tale senza subire, da una posizione di vulnerabilità, l’imposizione della volontà altrui.
Non si prescrive nulla ad altri, dunque, e non si interpreta la volontà di terzi, ci si limita, in determinate condizioni subordinate al controllo pubblicistico, a scriminare l’aiuto come adempimento di un dovere che rende effettiva l’autodeterminazione e impedisce l’eccesso della minaccia penalistica.
Ed attenzione non tiene, in tale ambito, la retorica secondo la quale - un tempo - a ricevere apprezzamento giuridico fosse solo chi impediva il suicidio e non chi lo agevolava, perché nel tempo nostro meraviglioso e terribile della turbo medicina in grado di realizzare cose potenti sul “corpo”, di mantenerlo in vita per anni e anni, in maniera automatica ed etero diretta, senza alcuna collaborazione volitiva del Singolo e, addirittura, in completa assenza di partecipazione vigile, la concretizzazione della volontà di farla finita, di abbandonare ogni trattamento, e l’aiuto di terzi per realizzarla, assomiglia moltissimo all’interruzione dell’inutile e dannoso accanimento terapeutico, generatore di sofferenza senza fine.
Oggi, quindi, è tanto necessario tutelare chi sappia e possa sventare in extremis il tentativo di suicidio dell’obnubilato, del confuso, di chi è in difficoltà sostenibile e affrontabile, quanto chi sappia e possa correre in soccorso, alla fine, di una volontà forte, concussa dai limiti di un corpo che non la assiste, non più Soggetto ma oggetto della forza imponente di macchinarti e farmaci capaci di prolungare - oltre natura - un tormento irredimibile.
A dire il vero, credo che così posta, aprendo l’analisi alla complessità del reale e al valore della Persona, non si possa facilmente affermare di trovarsi innanzi ad una frattura tra spiriti religiosi e gretti immanentisti.
Ed anzi, da un punto di vista teologico - politico, non ha più senso, su questi temi la dicotomia tra cattolici e laici, tra credenti ed atei. Il venir meno di un preciso ed ereditato Ordine Metafisico e valoriale (non solo religioso), la crisi dell’Autorità integralista concepita come paternalistica e moralistica, l’emergere della contingenza e della complessità quali categorie esistenziali che meritano riconoscimento pubblico, non cassano, ma acuiscono i dilemmi religiosi, e rendono sempre più tragica ed agonica l’adesione ad una fede, ad un credo, all’ideologia di riferimento, purificandone gli assiomi nel senso del coinvolgimento empatico.
E per questo, in questa fase, la Legge, per essere davvero legittima, in quanto espressione del Parlamento sovrano, nel momento in cui interverrà, non potrà che essere aperta alle eccezioni, attenta tanto al profilo dell'incriminazione quanto a quello delle cause di giustificazione.
Ogni diversa semplificazione normativa correrebbe il rischio di escludere dal “giuridico” una parte importante del sentire collettivo, di tradire una coscienza spontanea – per quanto frammentata – che non esprime, appunto, sul tema, sicurezze veritative, ma dubbi, incertezze, che impongono massima libertà di scelta individuale e rispetto per l’obiezione di coscienza e per la revoca del consenso dato.
Questa “incertezza” e apertura alla varietà dei casi singoli sono il segno di una antropologia nuova e pericolosa? Sono il simbolo di una cultura necrofila e nociva? Consentendo dignità ed effettività alla scelta libera si nega Dio? Si contestano valori fondanti, ci si consegna alla Terra?
Fece bene Augusto Del Noce, forse il più grande filosofo cattolico del Novecento, a distinguere in molti suoi scritti (come ad esempio nel saggio “Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità”, premesso a La Nuova Scienza Politica) tra una Gnosi antica, originaria, e uno gnosticismo post cristiano, eretico. Mentre quest’ultimo, infatti, nell’ideologia dello stadio finale, della Verità raggiunta, del livello ultimativo, mira a realizzare – in terra – la promessa del Paradiso, della Società Perfetta degli illuminati, dei certi e dei razionali, la Gnosi classica - scettica, dubbiosa e priva di certezze ma non di fede - si limitava a riconoscere, ad interpretare, a registrare la tragica debolezza d’ogni costruzione, anche giuridica e politica, umana.
La coscienza della caducità del mondo, la non compiutezza del Cosmos, apriva allora, ed apre ancora oggi, ad una religiosità dialettica, caratterizzata da un dualismo radicale, schiuso tanto alla trascendenza altera quanto all’intimità del dolore e del distacco che, nella speranza di salvezza e nell’abbandono fiducioso ad un “senso” diverso, riconosce il mondo e i suoi idoli sostitutivi come separati da Dio.
Il riconoscimento del limite e dei propri limiti, la rinuncia alla battaglia della vita quando questa rischia di sconfessare, anche per la forza dell’intervento tecnico/scientifico, la naturalità del passaggio verso l’altro mondo, mi sembrano davvero categorie religiose, tutt’altro che immanentistiche e che, per questo, non meritano la semplicistica condanna clericale.
E, forse, portando davvero alle estreme conseguenze il ragionamento di fede, l’interrogazione religiosa profonda che, se è tale, mina e scuote le acquisizioni del Potere, le verità imposte da questa o quella autorità costituita, dovremmo augurarci che il dibattito su tali questioni nel contesto democratico rivestisse le forme libere non solo del confronto giuridico ma anche di quello teologico di matrice popolare.
Perché non è “Teologia” solo la scienza oggetto degli studi e delle cure di sapienti dottori spesso avulsi dalla concretezza e dalla vita ma è tale, quale interrogazione senziente su Dio e sull’uomo che spera, anche la fede popolare, la devozione condivisa tra persone in carne ed ossa; quelle Persone che si rivolgono al Crocifisso non come ad un freddo simbolo tradizionale ma come ad un fratello allo specchio dello stesso dolore.