0

I Radicali prendono una netta posizione sul caso Rocchelli-Mironov all’indomani della condanna a 24 anni di reclusione, in primo grado, del soldato italo-ucraino Vitaliy Markiv, arruolato nella Guardia Nazionale ucraina quando il 24 maggio 2014, a Sloviansk, morirono il reporter italiano Andrea Rocchelli e il suo interprete, il giornalista e dissidente russo Andrej Mironov, e venne ferito il giornalista francese William Rougelon. Netta posizione: contro una condanna senza prove e per riaffermare il principio di una giustizia giusta e della difesa dello Stato di diritto.

L’occasione è una conferenza stampa convocata il 25 luglio, in Senato con Silvja Manzi (segretaria di Radicali Italiani), Raffaele Della Valle (l’avvocato di Markiv) e Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione camere penali), con Emma Bonino in prima fila ad ascoltare e, in sala, i vertici della rappresentanza diplomatica ucraina in Italia, a partire dall’ambasciatore Yevhen Perelygin.

Doppio il binario: politico (affrontato da Manzi), giudiziario (esaminato da Della Valle). Perché la vicenda è sia geopolitica sia processuale, e occorre avere cultura profondamente garantista per distinguere i due piani. Ne ha parlato proprio Manzi, introducendo il dibattito: «Noi ci avviciniamo a questa vicenda con uno spirito al 100% radicale, in nome dei principi dello Stato di diritto sia per quanto riguarda il processo sia per quanto riguarda il giudizio sul separatismo filorusso in Donbass».

Separatismo che si configurò fin dalle prime battute come un’azione paramilitare in larga scala, sicuramente aiutata dalla Federazione Russa (russo di cittadinanza era Igor Girkin alias Strelkov, comandante dei separatisti a Sloviansk nel maggio 2014, poi primo “governatore” della fantomatica “repubblica di Donetsk”), altrettanto sicuramente fuori da ogni possibile legalità internazionale e interna. Tanto che l’operazione con cui il governo in carica in Ucraina organizzò la sua controffensiva fu chiamata “operazione antiterrorismo”, con una scelta che alcuni oggi discutono sostenendo che sarebbe stato meglio dichiarare un conflitto aperto.

La vicenda geopolitica che sta alla base del conflitto in Donbass, la parte più orientale dell’Ucraina, vede da una parte proprio la legalità basata sulla Costituzione del Paese (che consente di cambiare un presidente di cui non si sa più nulla - e che infatti più tardi ricomparirà in Russia - e che non consente, invece, un referendum separatista in una sola Regione, come invece accaduto in Crimea), e dall’altra parte accuse mistificatorie di “golpe nazista” e di Paese “pieno di nazisti”. Accuse che non reggono all’evidenza dei fatti, perché quello che seguì Maidan non fu affatto un golpe ma una destituzione del presidente su base costituzionale e con voto parlamentare; e l’Ucraina è talmente “piena” di nazisti che i partiti di estrema destra non riescono a entrare nel Parlamento: non nel 2014, non nel 2019.

La mistificazione ha tuttavia forte presa in ambienti italiani di estrema sinistra, a cui non corrisponde un sufficiente rigore a livello d’informazione se, per esempio, ancora nel 2019 Markiv (dopo la sentenza) viene definito “paramilitare” da un autorevole quotidiano (mentre era inquadrato nella Guardia Nazionale, corrispondente ai nostri carabinieri), o se un autorevole settimanale definisce “visi tondi” e “teste rasate” le donne e gli uomini ucraini in Italia che per un anno si sono recati a Pavia ad assistere al processo.

Un’informazione più attenta non avrebbe poi trascurato, negli anni, le denunce radicali sull’apertura in Italia di consolati farlocchi, nonché sui legami tra il nuovo leader leghista Matteo Salvini e il “sottobosco” rossobruno poi prepotentemente emerso con l’incontro all’Hotel Metropol di Mosca organizzato da Gianluca Savoini.

Manzi ha a lungo parlato anche del rapporto tra Andrej Mironov e i Radicali. Perché Mironov, l’altro ucciso a Sloviansk, non era soltanto l’interprete di Rocchelli, ma ha una sua storia personale di dissidente di lunga data del regime sovietico. Conobbe carcere e confino sotto il regime “trasparente” di Gorbaciov. La sua propensione alla difesa dei diritti umani e della democrazia rese naturale negli anni ’80 del XX secolo l’incontro con il mondo radicale, quando Antonio Stango si mobilitò per aprire un ufficio del Pr a Mosca. Con l’associazione Memorial, Mironov combatté per i diritti umani anche successivamente alla caduta dell’Urss, ad esempio sulla Cecenia lavorò con Anna Politkovskaja.

«Continuamente pedinato dai servizi segreti, subiva costantemente minacce per le sue attività, e per questo motivo gli ambienti a lui vicini non possono escludere che l’obiettivo dell’attentato, nel quale ha perso la vita insieme a Rocchelli, fosse proprio lui», ha affermato Manzi in conferenza stampa: «se l’uccisione di questi due uomini di valore è avvenuta per una tragica fatalità, perché si sono trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato, vuol dire che per il Cremlino si è trattato di un colpo di fortuna, poiché l’oppositore del regime putiniano Andrej Mironov era proprio la persona giusta da colpire».

Peccato, però, che la procura di Pavia non abbia mai approfondito questa pista, preferendo concentrarsi unicamente sulla parte filogovernativa del conflitto in essere a Sloviansk nel 2014. Forse perché, grazie a un articolo del Corriere della Sera, la cui fonte era un “comandante” filogovernativo che secondo la giornalista aveva dichiarato che «qui si spara», i pm si sono imbattuti in Markiv, con doppia cittadinanza italiana e ucraina e quindi facilmente perseguibile dalla giustizia nostrana. Fa niente che non era affatto un comandante: il capo d’accusa si può modificare. Che sparassero sia gli uni sia gli altri, però, in un conflitto è piuttosto pacifico. Che questo significhi indagare da una sola parte non ci pare un modo di onorare la ricerca della verità, a cui ovviamente tutti noi teniamo, stringendoci umanamente con i familiari di Andrea Rocchelli, che in questa storia hanno sofferto silenzi e poi, ad un certo punto, hanno creduto che si aprissero squarci di giustizia.

Del processo e soprattutto della condanna, stupefacente perché senza vere prove e nonostante questo più pesante di quanto richiesto dal pm (24 anni contro 17), abbiamo parlato su Strade e ha parlato Della Valle in conferenza stampa, confermando l’intenzione di fare appello e ribadendo che «la corte d’assise di Pavia mi ha fatto perdere fiducia nella giustizia». L’avvocato che difese anche Enzo Tortora, uno dei più noti e dei più garantisti d’Italia, ha ribadito la necessità (politica) di arrivare a riforme della giustizia che, ad esempio a partire da una netta separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti, possa meglio garantire il funzionamento democratico del terzo potere.

L’attesa dell’appello, nel 2020, vale al 29enne Vitaliy Markiv la speranza di essere riconosciuto innocente, a tutti noi la confidenza che sia riaffermato un principio basilare di giustizia democratica secondo cui senza prove non si condanna nessuno. E, ma lo aggiungiamo in questa sede, l’auspicio che il caso Rocchelli-Mironov sia un giorno riaperto per perlustrare un’altra strada, quella che conduce a chi aveva ogni vantaggio nella morte dell’ex dissidente sovietico. Il cittadino russo Igor Girkin alias Strelkov, un giorno, forse sarà interrogato da un volenteroso magistrato italiano che preferirà la ricerca della verità a tutto campo. Non basterà interrogarlo, sarà complicato cercare legami con i servizi segreti russi, ma da un fatto accertato (agli atti del processo di Pavia) si può partire: Rocchelli e Mironov uscirono dall’hotel, quel maledetto 24 maggio 2014, perché il russo aveva ricevuto una telefonata. Qualcuno gli aveva suggerito di andare a vedere un posto, per fotografare qualcosa d’interessante. Chi fosse il suo contatto e di quale posto si trattasse non è dato saperlo, ma qui pensiamo che sia importante indagare se si sia trattato di una tragica trappola.